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Giovanni Malonni
L’ansia Una musica lenta d’organo sale e riempie la mia piccola stanza assorta nell’ombra di una quiete che dice al mio cuore pace. E pace in coro mi cantano gli uccelli di sopra i tetti. E le nuvole di lassù si muovono leggere squarciando a tratti il cielo blu. Ma nulla! Invano si tenta di sciogliere quel nodo aggrovigliato entro al mio petto!
Madrigale triste Vapori umidi di pioggia si levano dai tetti e si dissolvono nel cielo terso portando ovunque messaggi lugubri di morte. Dentro persone in solitudine raccolgono i loro corpi aggrovigliati e contorti da spasmi di ostinata angoscia!
A una donna Angelo Non so se in una chiesa o per la strada, mi sei apparsa in un attimo, come il lampo improvviso prima del temporale, e la mia mente allora abbagliata rivive della tua luce. Rivederti o conoscerti meglio io non cerco, anzi non voglio. Altro non voglio che distrugga la tua divina figura. Regina o zingara che importa! Venere nata dalla tempesta o dalla schiuma del mare che importa! Demone o angelo che importa! Io questo non voglio sapere - più in là non oso. Io voglio serbare nella mia mente la tua candida immagine, anche quando in me più non sarà poesia anche quando ormai i caduchi tuoi petali si troveran nel fango!
Ascoltare il silenzio È osservare il sole pallido e stanco posarsi sulla campagna. È osservare l’ombra chiara della luna nelle notti d’inverno. È sentire il suono lontano di una campana. È l’abbaiare solitario di un cane nella notte. È la pedata stanca di un uomo, il rumore di un carro che all’alba riprende il suo cammino. È il corpo esausto del guerriero dopo la battaglia. È vedere i tuoi occhi languidi fissi all’infinito. È il mio cuore che palpita adagio privo di ogni sensazione. O sordi rumori! Quando mai potrò più risentirvi? Dolci ricordi di un tempo! Io sto correndo dietro al vento e più ormai non m’accorgo, più non vi sento!
Poesia
Opera in Concorso
Isabella Sandon Tenca
Poesia
Opera in Concorso (in definizione)
Specchi Parlano in noi lastre di vita ridotte in frammenti tracce significanti del magico specchio caverna antica delle nostre paure ridotte a riflessi confusi
Libellule Aeree trasparenze si librano leggere poeticizzando la pozza d'alta montagna. Ed è danza musicale Il loro accoppiarsi
La città Alla luce del tramonto i grattacieli di vetro diventano specchi seriali di luce rosa-dorata su campo grigio acciaio
Gabbie Ognuno sta chiuso nella sua gabbia di tempo, luogo e tabù. Solo la bellezza ha le chiavi che aprono le gabbie
Francesco Di Garbo
Libro
Opera in Concorso
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Francesco Di Garbo
Racconto
Opera in Concorso
L'EREDITÀ DELLA GUERRA #Me ne andavo come ogni mattina con le pecore a pascolare quando davanti a me un colono armato fino ai denti vidi sbucare voleva che di punto in bianco andassi via dalla mia terra sosteneva che adesso sua era diventata senza manco pagarla esibiva un falso anomico rogito israeliano a testimoniare l'esproprio truce con la forza tracotante delle armi mi voleva esautorare poi una ruspa fece arrivare e in due-tre la mia casa fece crollare non contento mi voleva ammazzare per fare piazza pulita di tutti gli arabi in Cisgiordania e per darmi prova ch'era serio le mie pecore prese a sventagliare tanto per morire d'inedia volermi abbandonare in barba ai diritti umani universali e degli accordi di Oslo stipulati e a Camp David controfirmati.#
*** Tra le gare sportive le staffette hanno un fascino particolare. Il passaggio di testimone entusiasma anche il più negletto degli spettatori. In effetti non vincono gli atleti, vince il testimone che rappresenta la nazione più che i protagonisti. In sport prettamente individuali le staffette sono gare collettive. Il testimone deve arrivare al traguardo sano e salvo senza cadere a terra. L'incidente nel passaggio da una mano all'altra è dietro l'angolo per una svista, un'incomprensione un piccolo errore d'intesa tra gli atleti. Ciò che entusiasma nelle staffette è che oltre all'impresa sportiva esse rispecchiano il senso della vita comunitaria. L'impresa singola pur essendo intrisa di motivi ed aspetti esistenziali rimane fine a se stessa all'interno della specifica storia individuale. Nel suo corrispettivo comunitario l'impresa collettiva delle staffette riguarda il passaggio generazionale familiare o di comunità. Il testimone assume un valore metaforico e simbolico non indifferente per la vita umana volta a tramandare e trasmettere alle generazioni future le conoscenze e i fatti del passato, facendo proprie le esperienze vissute per rinnovarle nel futuro ad-venire. E semmai modificarle e perfezionarle per migliorare l'esistenza familiare o collettiva. La tradizione tramandata non può restare statica com'era nel passato, ma dal passato va preso cosa c'era di buono depurandolo da cosa non andava e riadattare la tradizione alle nuove esigenze. Tuttavia si ha la sensazione che dalla tradizione viene preso cosa c'era di cattivo per perpetuare le ingiustizie e le disuguaglianze, mentre il buono viene accantonato; sembra che la storia non ci insegni nulla e ricommettiamo sempre gli stessi errori. Chi ha in mano le leve del potere si abbarbica alla tradizione in questo senso per continuare a dominare senza cambiare nulla. Di contro predicano il cambiamento per continuare ad avere in mano le leve del potere: quindi razzolano male. Il testimone ha valore quando le cose cambiano sia nelle persone quanto nei fatti, non per razionalizzare la realtà, ma per renderla razionale secondo i criteri e i principi logici e non solo matematici. oggigiorno invece domina la quantità a discapito della qualità, la quantificazione della guerra a discapito della qualificazione della pace. È sempre successo nella storia che i morti hanno lasciato il testimone ai vivi affinché continuassero la loro opera; essere testimoni del loro sacrificio per redimerlo affinché esso non sia stato compiuto invano. I vivi lo devono testimoniare. Tuttavia spesso le ingiustizie, il terrore, i drammi creano talmente tanto di quell'odio che chi raccoglie il testimone viene posseduto dalla vendetta e vive con questo scopo: giusto o sbagliato che sia. È così che si generano le faide tribali, l'odio etnico e si perpetua la guerra tra le famiglie e i popoli. Mauro aveva ottenuto quell'incontro audio per vie traverse indicibili; le fonti devono restare sempre anonime, recita il primo principio del giornalismo. Abed dopo aver tentennato parecchio e vagliate le conseguenze aveva accettato di dire la sua con tutte le cautele del caso. Ed era un fiume in piena di parole, a partire dall'operazione “Piombo Fuso” del 2008 per non risalire al 1948. “Il paesaggio intorno a me non mi sembrava vero, mi giravo e rigiravo per averne piena contezza e pensavo d'essere dentro un film di fantascienza. Cercavo in tutti i modi di tornare alla realtà ma non ci potevo credere. Realtà postatomica: sublime devastazione da percezione subliminale, macerie, sangue, morti e polvere. Scene di quelle che neanche in televisione vorresti vedere e io le toccavo con mano, le vedevo dal vivo. Ero vivo? Mi sembrava d'essere in un altro mondo, nell'oltretomba. M'avevano appena estratto da sotto le macerie, tirato fuori dalla tomba”. Quando si guardano queste scene in televisione ci si commuove e si piange. Atrocità reali non film distopici horror. Reale realtà sovradeterminata, irrazionale. “Mi tirarono fuori vivo per miracolo, ma non era un miracolo. Era la mano dell'uomo altroché miracolo, i miracoli non esistono. Non c'è nulla da disquisire sopra i miracoli, sulla mano dell'uomo sì, molto. Anche se tanti non ci credono e fanno gli struzzi, si arrampicano sugli specchi per trovare una minima catarsi giustificativa, apologo sub iudice di discolpa”. Corpi straziati intorno a me. Corpi martoriati vagavano come ombre fugaci alla ricerca del senno perso, qualche straccio qualche brandello una pentola perforata, una coperta sfrangiata. Dissennate mani sul grilletto con tute da robocop indossate sventagliavano proiettili a bizzeffe su chi raccattava miseri resti da riciclare per un presente ignobile da affrontare. “Una forchetta ricurva gli sembrò un'arma micidiale e subito sparò per rendere innocuo il ragazzino che la teneva in mano: robocop col grilletto facile”. Si sparava anche alle pecore per non dare da mangiare ai bombardati. “Vidi il ragazzino traballare, accasciarsi e rialzarsi che alla morte non si voleva rassegnare”. La madre con le mani al cielo si disperava e io singhiozzavo. “Mi porsero una bottiglia impolverata con un fondo d'acqua per ripulire la gola dalla polvere incrostata”. Più in là un carrozzone si strascicava per la strada con alcuni morti sopra ricoperti con la bandiera Palestinese”. Non c'era più pietà. Era morta e sepolta anch'essa trucidata dalla mano dei politici in auge puliti col doppiopetto del popolo eletto/negletto. Demoni incarnati, esodati paralizzati di fronte al roveto ardente che si beano dell'ipertrofica tronfia elezione supereroi da sentirsi i migliori al mondo; visione sionista-fascista. Visione daltonica! “Dire “atrocità inaudite” è un eufemismo plaudente, un encomio assolvente. I potenti se ne stanno a guardare e lasciano fare all'avamposto dell'impero. Per reconditi motivi all'ONU non mettono il veto, nel senso che i motivi si sanno benissimo, ma sono reconditi in quanto deplorevoli e grevi”. In mezzo a questo paesaggio lunare non mi ritrovavo, avevo perso ogni lucida cognizione reale. Ero lì. Tanti visi lerci anneriti a mani nude scavavano in cerca di cadaveri. “E cosa volete trovare? Qui anche i vivi sono morti!”. Diceva una voce fuori campo. Parenti e amici, grandi e piccoli scavavano mentre una torcia illuminava le tenebre. Era tutto così tenebroso che il cielo non si vedeva sebbene fosse pieno giorno. “Un signore che non riconoscevo come mio padre faceva leva con una stanga a sollevare una trave, fare un pertugio per andare in giù nel palazzo ridotto ad un cumulo di detriti. Un altro che non riconoscevo fosse mio zio si disperava che li sotto c'era sua moglie e sua figlia di sette anni, la mia cuginetta con la quale giocavo a tre sette e disegnavo sulle carte...”. Lo chiamarono alla ricetrasmittente e si allontanò di corsa. Mauro restò nell'ospedale da campo di MSF, dov'era ospite, con l'attendente- traduttore che gli descriveva la situazione nel reticolo dei tunnel, di come li avevano scavati e come li gestivano a compartimenti stagni. Dopo quasi un'ora Abed tornò al microfono, accalorato ma rilassato. Riprese il racconto. “Mio nonno furtivo era entrato dopo le prime bombe per svegliarci e farci uscire, stava prendendo un cappotto per ripararsi dal freddo e rimase intrappolato come un dannato alla Cayenna. Stava aprendo l'armadio e tutto crollò in un'istante, un colpo sordo, un tonfo sordido e la deflagrazione fece il suo effetto orbo”. Schegge rimbombanti impazzavano mentre l'edificio s'afflosciava sotto una nube di polvere che s'ergeva al cielo, inalberandosi come un fungo. La chioma era grigia e densa, occludente le vie respiratorie a chi ci capitava in mezzo. “I suoi occhi prima che si chiudessero per sempre mi hanno lasciato in eredità la vendetta. Era un nullatenente spossessato dai Farisei della sua atavica terra a favore dei coloni. Ingordigia senza resto”. Confidò Abed biascicando le parole. Fece un respiro profondo, si schiarì la gola con un sorso ormai freddo di tè e riprese nel racconto. “La guerra lascia in eredità la vendetta, la legge del taglione e ineluttabilmente ci sarà qualcuno che prenderà-riceverà il testimone. Mia madre seduta su un blocco di cemento col ferro contorto piangeva a dirotto come se nevicasse; di mia nonna non se ne sapeva niente. Se ne stava con la testa tra le mani e tirava in su con il naso, fece un sorriso amaro misto a lacrime di felicità allorquando vide la mia mano uscire dall'anfratto innaturale. E in arabo di gioia gridava, in inglese gridava maledizioni a tutto spiano con incurabili mani al cielo sollevate”. Cantava la zaghroutah di vendetta e con tutto il cuore la invocava. Il cuore divenne un coro, e tutti i presenti intorno si accodarono. “Che colpa ne ho se sono cresciuto nell'odio? Io non voglio odiare mi hanno fatto odiare con l'orrore subito dal mio popolo, dalla mia terra. È colpa mia? No!”. Chiese e rispose retoricamente Abed a se stesso più che a Mauro. Vivendo all'inferno non si crea altro che risentimento, ci si impregna d'odio come lo iodio, imbevuti gialli di bile verso gli estorsori delle terre altrui. “Vogliono estirpare Hamas ma si fanno i conti senza l'oste. Ci possono uccidere tutti, ma sono già pronti coloro che raccoglieranno il testimone. Tra dieci anni saranno punto e a capo. La Palestina è immortale, anche se occuperanno tutto il territorio vivrà in eterno. Possono avere tutte le armi migliori, ma non potranno mai sottomettere un intero popolo. Netanyau l'ha presa come un affronto personale al suo onore, non ci dorme la notte e ha sete di vendetta. Deve lavare l'onta sulla sua carriera politica. Resterà questo nei libri di storia. Giudicato come Hitler”. Abed si lasciò andare a sfogare una ramanzina sulla “Terra promessa” declamata come l'ombelico del mondo mentre a lui sembrava ridotta più che altro il buco del culo del mondo. E il condottiero novello David ammorbato, come un tamarro circondato da maranza, della sindrome terapeutica negativa: meglio malato che cadere guarito. Il tamarro non ha sensi di colpa, ha solo impulsi coattivi. È uno che non riesce a verificare se si trova nel mondo comune o d'essere quello dello specchio. Mauro aveva bisogno di testimonianze autentiche, informazioni pulite e non le solite cose da cani da guardia. Tutta l'informazione che usciva da Gaza era embedded al seguito dell'esercito di Tel Aviv che faceva vedere quello che gli faceva comodo a discapito della verità, la quale risultava parziale e teleguidata. A Mauro ciò non lo soddisfaceva affatto essendo lui ligio ai principi irreprensibili, scritti sulla pietra, del giornalismo autentico. Abed si muove tra le ombre silenziose di Gaza city, i revenants rimasti a presidiare e testimoniare l'indecenza israeliana. Le scansa e si meraviglia che nessuno l'abbia contattato come testimone del paesaggio mortuario. Si meraviglia che nessuno cerca la verità e tutti si accontentano degli embedded disinformati. Di quelli a cui fanno fare i tour turistici giornalistici. Eppure i contatti arabi o occidentali che Abed ha lo sanno che lui è nel sottosuolo sotto i raid pronto a vuotare il sacco. Solo qualche testata araba ha fatto alzare la sua voce dal sottosuolo dove si protegge dalle bombe. Per Mauro ci voleva una seduta medium per contattarlo e sentire la testimonianza di Abed. Era difficile da raggiungere in quelle catacombe di Gaza city dove si aggirava con una radio a bassa frequenza per non essere geolocalizzato. La notte usciva l'antenna e si connetteva con un cellulare tra i profughi scacciati verso Rafah. Mauro doveva verificare una fonte che gli era stata trapelata dal suo informatore alla Casa Bianca. Fonte sicura ma ci voleva la conferma sul campo. Il file vocale riportava una conversazione tra Netanyau e Biden, o meglio tra il loro sherpa, alter ego, più vicini. “Non arrischiatevi a far passare la mozione al Consiglio di Sicurezza. Dovete mettere il veto”. Sosteneva l'israeliano. “Siamo sicuri che poi non attaccate Rafah? Perché nostre fonti dicono che volete arrivare in Egitto”. Bofonchiava l'americano. “Ti do la parola d'onore di Netanyau che non colpiremo i civili”. Replicò l'israeliano con tono categorico. L'impero pensava di controllare la periferia, l'avamposto antimusulmano, senza perderci la faccia che già tanti guai aveva combinato adducendo la mera scusa del terrorismo. Contenerlo per non mettersi contro l'opinione mondiale. Avevano già messo tre veti e il quarto era un'esagerazione. Poteva sembrare che la lobby interna ebraica condizionasse le decisioni del Presidente, ed in tempo di elezione non era facile barcamenarsi. “Tranquillo Sam tuo nipote Ben non ti tradirà mai”. Disse con tono convincente l'israeliano. “Siamo il tuo avamposto, non lo dimenticare”. Lo rassicurò, aggiungendo: “In una regione che fibrilla di arabi con la testa malata”. “Attenti che state oltrepassando il limite. Se il conflitto s'allarga non vi possiamo aiutare. E con le vostre forze non ce la potete fare. Metteremo il veto ma datevi una calmata. Rendetevi conto che state perdendo consenso al livello mondiale”. Lo mise in guardia l'americano non tenendo conto che di Giuda non ci si può allegramente fidare. La solita solfa, siamo degli asini a cui la storia non insegna niente. “Se non rispettate gli impegni presi e ci prendete per i fondelli la nostra pazienza ha un limite”. L'assicurazione dell'amico alter ego di Netanyau non lo convinceva, eppure si doveva fidare. Infatti il giorno dopo il veto all'ONU gli israeliani ripresero a marciare con raid su ospedali e moschee cacciando via la popolazione verso il mare per farli affogare. Fu così che passò alla storia come una remota provincia prese per il culo il centro dell'impero. L'eccesso di presunzione è un peccato mortale, l'impero con tutti i pensieri che aveva accusò il colpo e andò in fibrillazione. Quel file vocale era una bomba perché sputtanava l'ignominiosa condotta in questa guerra degli Stati Uniti. Eppure l'opinione pubblica in parte era pure filoisraeliana ad oltranza giustificando e rendendosi complice del massacro, del genocidio in atto. Per motivi di sicurezza Abed doveva chiudere la conversazione. “Caro Mauro qui siamo tutti terrorizzati, non solo i bambini e le donne, ma anche i grandi e i vecchi. Il terrore misto a rabbia si legge nei volti di tutti. È un terrore che si esprime in rancore e odio. Essi raccoglieranno il testimone, saranno la staffetta dei morti e in un prossimo futuro li vendicheranno. La Palestina immortale. Non si può cancellare dalla faccia della terra un popolo, una nazione, neanche Hitler c'è riuscito”. E mise giù il microfono. L'immortalità dell'uomo consiste nel fatto che qualcun altro, figlia o figlio, nipote o cugino raccoglie il testimone e continui l'opera del defunto. Lo stesso avviene per un popolo o etnia. La riproduzione ha questo fine: impedire l'estinzione. Evitare che i progetti avviati restino a metà: non conclusi, stroncati.
Rosella Rogora
Poesia
Opera in Concorso
Il Nulla Laggiù dove finisce il mare l’immenso si staglia prepotente in uno sfondo tinto di nero solo il pensiero illumina le menti sagge pronti a comprendere il nulla. Dove finisce l’immenso vive qualcosa di impenetrabile e divino dove l’anima respira abbandonata in un abbraccio sovrumano cos’è il nulla un abbraccio di tutto e di niente un respiro agognato su labbra gelide che sussurrano. il nulla è niente di niente è di tutto e di tutti.
Frammenti Frammenti di giochi in campi di grano di grandi risate di grida spensierate. Frammenti di profumi di sapori di tavole imbandite. Frammenti spezzati di anni che scorrono via lasciando uno strascico nostalgico. Frammenti d’amori perduti e ritrovati. Frammenti di noi che viviamo il giorno e la notte perché la vita è un piccolo e fragile frammento di stelle cadenti.
Profumo di madre Il profumo della tua pelle mi rincuora. Come bimba nel tuo grembo mi rifugio. Profumo di madre mi riveste come abito d’amore. Il richiamo è forte e placa le mie anse riconducendomi laddove le tue braccia mi stringevano al cuore. Quel profumo è dentro di me come anima che si strugge d’amore.
Rosella Rogora
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Indice degli Autori - In ordine di iscrizione
Gianfranco Tamagnini
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Marco Cesare Mariani
Poesie
Opera in Concorso
Raggio Un raggio di luce si infila tenue nell’antica oscurità di un pozzo Sguardi pigri, ignari, si destano da uno sconosciuto sonno …Si sveglia la notte, stordita da un raggio di luce.
Addio Addio anni in cui dolce era l’odore dell’inchiostro sparso sui rigoni del foglio Addio tiglio, odore pungente che abbracciavi la polvere umida orfana di pioggia Addio strada lunga che misuravo con i miei allegri piccoli passi Addio volti, odori, che riempivano i miei primi ampi sguardi Addio volti che siete stati ore delle mie prime giornate Voci, sguardi, sorrisi sinceri Addio anni giovanili Gli unici immortali
Alzhaimer Ti sento fetore al vento, pezzo di un escremento ormai stanco Ti sento netto come vedevo il tetto della mia casa un tempo bianco Ti sento anche da lontano con questa tua scia acquosa ed odorosa Tuo sollazzo stupito di donna in una giornata afosa Va dolce letame anticipo del mio giorno fatale Ormai la tua mente sfatta vive una solitudine carnale
Amo… Non sono una cima d'altezza o una grande spugnosa testa Amo la compagnia, i sorrisi, l'allegria dei giovani migranti in festa Amo la parola, lo sguardo di chi soffre perché sa che poco gli resta Amo chi aiuta, chi ha avuto poco e di questo poco non protesta Amo il talento nascosto, diverso che ognuno ha, quando è umile e senza cresta Amo la gente che ama e si dona senza mai fermarsi o sentirsi mesta Amo te, figlio mio, mia energia, mia vita, prima della lunga, comune siesta
Maria Grazia Butti
Poesie
Opera in Concorso
L’oggetto Nel buio del canto ove un dì ti posero stai celato e muto carico di segreti ad alcuno mai svelati. Compari improvviso arretri la mente fermi l’attimo, ravvisi immagini svuotate dal tempo. Scampato alla vita arrivi dallo spazio, precipiti nel presente incolume, privo d'ogni ferita. Tacito, nella tua immobilità, vivi l’eternità.
Nasce un’idea Esile s’infila un bagliore tra le buie pieghe della mente. Vaga nei meandri oscuri, abbatte ostacoli e si frange. Riprende vigore avanza prepotente raccoglie nuova energia si gonfia come vela al vento e impetuoso si espande tra coriandoli di luce.
Parole di ghiaccio Parole di ghiaccio tagliano quei silenzi. Brillano fugaci nel vuoto per colpire il bersaglio. Sibila nell’aria muta un lungo lamento. Perenni cerchi umidi compaiono sulla terra arida.
Quasi un’invenzione A te che nel cuore mi respiri e scaldi le mie mani. A te che mi attraversi le vene e mi inondi la mente. A te che le tenebre dissolvi \ e accendi luna al mattino. A te che mi tieni al laccio e mi lasci volteggiare. A te che, soffio di brezza, attenui le cicatrici. A te mi dedico nell'infinito di questa stanza.
Lucia Nazzaro
Breve racconto
Opera in Concorso
A proposito di un pasto mai consumato da un agnello Quel mattino le aveva tagliato le unghie dei piedi e mentre rigirava le mobili dita fra le sue mani, l’allora bambina, si accorse di quanto era buffa, di quanto era grassa, di quanto ridesse male e a sproposito. Sua madre. Rideva delle sue dita molli che si adattavano volentieri al suo ridicolo gioco. Che facesse in fretta a coprirli con i calzini (quelli più nuovi, più bianchi), con le scarpe che sicuramente, avrebbero avuto ancora l’odore del bianchetto con il quale le ave dipinte, perché lei fosse stata più credibile nel momento in cui avrebbe sostenuto la parte di chi aveva fatto la prima comunione… Se fosse stata adulta l’avrebbe trovata solo patetica e magari avrebbe riso con lei per farla felice ma, non lo era e quel gioco metteva troppo in evidenza quei grandi piedi di cui provava vergogna. Le sue sorelle (non certo mosse da spirito consolatorio), dicevano che sarebbe diventata molto alta. La più alta di tutte (per via di quei grandi piedi). Ma, a prescindere dalle loro intenzioni, quel motivo non la consolava. Era come se presagisse che quei piedi, li avrebbe sempre visti ingombranti. Non adeguati alla sua figura che, di fatto, smise di crescere prima dei piedi. Non diventò molto alta. Solo un pochino di più delle sue sorelle. Non poteva bastare a colmare differenze… Quando, quel mattino, si trovò sui banchi di scuola, non poteva fare a meno di guardarli, anche perché l’aspettava un recita che non le avrebbe fatto onore. A scuola le parlavano di “fioretti” di un Gesù bambino che avrebbe voluto come amico…Doveva invece mentire. Non era il modo giusto di avvicinarlo. Come avrebbe fatto a recitare la preghierina, prima di coricarsi? Era così piccola, povera cocca! Non sapeva ancora urlare: ”Ipocrita!”. A sua madre. Sì, proprio a sua madre. Non riusciva neanche a guardarla ma, quel mattino, non desiderava particolarmente essere sui banchi di scuola e, quindi la scrutò un momento, come in attesa. Forse voleva rapire quel momento di riflessione che, lo sapeva, non ci sarebbe mai stato. Era una donna così priva di benevolenza! Aveva una scorza dura ma, come armatura priva di punte acuminate, poteva ingannare ed essere scambiata per dolcezza, la sua pasta molle. Rivestiva le sue grosse ossa, dure come marmo e come ghiaccio che ripara nell’ombra per non spiegare al sole la sua reale consistenza. Quell’acqua che le inondava il volto quando piangeva. Piangeva sempre e rideva, anche, di chi l’aveva fatta piangere. Puntava il dito contro di lui che l’amava tanto. Si era sempre chiesta come potesse avvicinarla e chiudersi con lei poi…in quella stanza. E il tempo sarebbe diventato infinito prima che quella porta si aprisse alle sue domande, alla sua paura e non l’avrebbe percepito poi così lungo non appena avesse sentito su di quella nube calda, densa di lacrime maleodoranti. Di a poco l’avrebbe vista in cucina, preparare la merenda per lei, per le sue sorelle e tutte, in silenzio, avrebbero consumato il disgusto e il mistero della loro nascita. Figlia del disgusto impronta del demonio Annichilisco Come fosse vero che Dio ricalca passaggi di stelle, infuocate dallo stesso ceppo. Del resto, di quel cibo strappato alle lacrime non ne avevano proprio bisogno. L’altro, quello che nutre anche lo spirito, l’avrebbero cercato tutta la vita. Anche quando lei, abbandonato ogni pudore, lanciava sfide alla lascivia dopo aver comunicato che doveva “evolversi”, andare verso una vita libera, verso il primo amore. E non si sarebbe stancata di cercarlo. Il primo, l’ultimo, che importanza poteva avere, sapeva di mentire, non ci sarebbe mai stato. Non era di questa terra, la cosa che stava cercando con l’appetito che riservava al suo piatto preferito. Pasta e ricotta, anzi, pastina. Le veniva da vomitare, mentre pensava alle sue labbra sporche (da adulta avrebbe capito perché e avrebbe diluito nell’alcool il disgusto della stessa brama), alla sua ingordigia, pari solo a quella della bambina che, intanto cresceva… all’ombra della sua stessa specie, quella dell’animale che aspira spiritualità mentre mastica sapore della stessa carne. Ma, di questo, lei, la madre, non era consapevole. Almeno d i questo. Si dichiarava innocente come Maria (la Vergine) e forse lo era. Non lo era quella parola, ormai adulta, che scioglieva nell’acido, quelle stille di malaugurata sapienza. Sì, l’amore, soprattutto non era suo. Di lei, la madre. Era di quella parola che attentava all’orrore mentre cercava verità, nascoste anche all’Assoluto e rischiava di perdere, i n quella sfida il molteplice… avvicendarsi di figure, trasfigurate proprio dalle capziose torture della sua parola. Quella, attentava l’ordine naturale delle cose e le era antipatica non meno della madre che in fondo, faceva la stessa operazione: ingoiava bocconi di sana natura animale per sputarne, subito dopo, la vera sostanza. La sua dentatura corrotta non scioglieva le fibre e rimandava al fiele il compito di distruggerne la consistenza. Perché, per lei, era soprattutto importante il succo che poteva trarne, Quel sapore dolciastro che spingeva dentro come a rafforzare la sua natura, già troppo compromessa dal suo stesso sangue. Edera dolore, vederla così e nausea fino allo spasmo. Ma lei non si avvedeva di nulla, mentre imboccava vie che di assurdo avevano solo la sua del tutto naturale propensione a iniettare il veleno della discordia laddove, a sua insaputa, cresceva amore. Chissà cosa la rendeva così riluttante, così “schifata” al solo pronunciarsi della parola, cosa le si muoveva dentro in quel passaggio fra parola e gesto che la stessa evoca. Non certo la bellezza di una natività… piuttosto, veniva da pensare, a quell’attentato alla sua purezza che era parte costituente la sua sacra famiglia… quel “ti amo”, anche, che la incriminò, pare a sua insaputa, donna e madre, anche… Quale la sua colpa (?), per cotanto scempio… Incredula si aggirava fra le sue figlie e, sempre più incredula, partecipava ai funerali degli unici due maschi. Nessun dolore. Solo quell’acqua salata he le irrigava il volto, che sottolineava i lineamenti, già consegnati al tempo di allora. Sembrava che la morte non la riguardasse e anche oggi che si supponeva, non le fosse molto lontana, nicchiava oltre cent’anni… Infatti, non era possibile che morisse. Era troppo scaltra per non ammansire anche quella, per non deludere anche quelli che l’avevano sognata per lei, per sfinire sul bordo dell’umanità. E anche lei, la figlia, in fondo, osava pensarla così, sempre viva. Con i panni stesi al vento e con la sua voce che cantava motivi d’altri tempi e osava, anche, sfidare, fino all’ultima canzone, una possibilità, qualche volta vagheggiata. Come quella volta che aveva interrotto una lezione di Storia dell’Arte perché fosse fatta giustizia, che restituissero, alla sua bambina, il libro di chimica! E l’altra, quella in cui la vide andarle incontro trafelata, come intimidita. Stava per darle il libro di anatomia che lei non aveva potuto comprarsi, con queste parole: “Era questo che volevi?...” E lei scoprì l’altra faccia della vergogna. In quel la via, quella piccola, goffa donna, le consegnava qualcosa di grande. Qualcosa a cui non sapeva dare un nome ma, forse era amore. La stessa donna che qualche tempo prima, l’aveva messa in ridicolo. Per lo stesso principio, forse. Due “precedenti” diversi per lo stesso rimorso. Quello, indulgeva sulla sua parola, stanca, stancante… Non era chiaro, infatti, cosa la spingesse a scrivere, anche di lei. Non aveva un buon odore, almeno non era quello del suo bucato steso al sole. Non ne era consapevole e strappava i suoi baci, i suoi abbracci. E lei non aveva scappatoie e sfiniva, fra le sue grosse braccia, il desiderio di un disinfettante. Fosse stata meno presente, forse l’avrebbe amata. Mentre così scriveva, la pensò in quella sua ultima scena. Quella Casa di riposo che, oggi, raccoglieva le sue braccia ormai smunte. E stupiva del sua presenza flaccida eppure sempre più ingombrante. Pensava che di questo, erano responsabili le sue sorelle che l’amavano tanto. Che l’abbracciassero allora, che la stringessero, che non le facessero mancare l’aria e i piatti che amava tanto… Perché, proprio lei, era “del suo cuore”?… Mentre così scriveva, lo sentì battere più forte, come un sussulto. Poi uno strano silenzio la coprì alle spalle. Come un paradosso. Non mai troppo lontano dalla verità. Il gelo voleva sciogliersi in lacrime ma, ancora una volta, trionfò qualcos’atro. La scrittura abbandonò la sua arma. 10 Marzo 2021 Lucia Nazzaro Disarmata. Sì, era proprio così che si sentiva mentre il cuore l’avvertiva di un battito, tutto nuovo. Amore, pietas… Che importanza poteva avere ormai. La parola era stata scritta. Vinta dal rimorso, avrebbe potuto strapparla, quella pagina. Nessuno l’avrebbe reclamata perché, lei, non era nessuno. Almeno, non ancora. Forse, in quello scorcio di vita, poteva scrivere ancora la parola giusta. E forse, era proprio quella che aveva appena letto. Per questo motivo non poteva distruggerla. Forse. E perché poi? Non avrebbe impedito nulla. La morte era già lì, pronta all’uso…Un’ occasione per esibire lacrime. Probabilmente ne avrebbe approfittato anche lei. Le sentiva già prossime a versarsi sul suo volto e sarebbero state proprio come quelle di sua madre. Ne era certa. Una contrazione distratta delle palpebre. Quelle di sempre erano così. Non quelle di questi ultimi suoi giorni. Queste, non sono originate da nessun movimento. Ben ferme sullo sguardo non accennano a sciogliersi, a irrorare quel volto, ché pure oggi ne avrebbe veramente bisogno Sono mute, sono sorde, sono puro dolore e il suo spaesamento. Perché, il dolore, quando non è corrotto regala solo alla meraviglia la sua verità. Era bella. La morte le si addiceva. Era come un gioco bizzarro della vita. Le sue mani si muovevano intorno alla sua figura come a simulare una danza, sembrava cercassero il volto come per sfiorarlo o per assicurarsi che c’era ancora. Di fatto era rimasto ben poco della sua fisicità. Quella fisicità che aveva dato tanto fastidio, non faceva più rumore. Il silenzio l’aveva attraversata, aveva tolto ogni ingombrante fardello. L’aveva come svuotata, lavata. In poco tempo la mano di un dio, scultore forse, aveva con il più piccolo scalpello modellato le vene a tal punto da far intuire lo scorrere di quel sangue così impoverito. Si aspettava di vederle pulsare, urlare ancora brama di vita ma tutto, ormai, era fermo intorno a lei che, paziente come la morte, non voleva ancora consegnarla al suo principio e chiedeva alla voce di cantare quella vecchia canzone: “Volareeeeee….. 30 Marzo 2022 Ma, quella vecchia vita, non voleva proprio lasciarla. Le si era appoggiata addosso come un abito ingiallito dal disuso ma, come abito indossato fino all’accanimento, rivelava della sua impronta. C’era tutto della sua precedente forma. Tutto, meno il colore che si ostinavano a metterle addosso…come forma di risarcimento di quello che le avevano tolto…forse. Forse, come fosse già morta, la vestivano del loro rimorso… “Io sono il vento…” Altra vecchia canzone che, fino a qualche giorno prima aveva cantato. Datele l’aria, per Dio! L’acqua del mare…che possa annegarci dentro! Così, come desidera. Forse non più. E’ di oggi, l’accettazione e una strana umiltà. Come avesse già dialogato con la morte e ne fosse uscita con qualche garanzia. Che importanza può avere la morte se è già tutto finito? E’ solo una formalità e per noi che stiamo a guardare, un sollievo. Forse Eppure qualcosa si muove, in quello sguardo. Qualcosa che ha a che fare con l’immortalità come fosse, questa, un’indolenza della vita. Potessero, queste pigre parole, portarla all’altare, come sposa della bellezza. Potessi riscattare parole come amore, giustizia, fede… Taccio, non voglio carpire il suo segreto. 25 giugno 2022 Lucia Nazzaro Quel pomeriggio aveva pregato la morte di ricordarsi di lei. Meglio, di quel poco che rimaneva di quel paradosso che era stata la sua vita. Una scappatoia per i sensi. Quegli stessi che l’avevano obbligata a procreare, nonostante se stessa e la sua voglia di viverli senza che questi avessero a che fare con la sua fertile natura…e paradossalmente, anche oggi che della vita aveva perso ogni orientamento, quella lista di nomi che erano le sue figlie (aveva avuto anche dei maschi ma non erano più), la ricongiungevano al senso della vita. Quale? Non è dato sapere. E’ un fatto che quel senso, non le faceva prendere la direzione della morte o, semplicemente, la morte l’aveva dimenticata. Come si dimentica volentieri un fardello pesante. A sua volta madre, aveva raccolto questa intuizione del figlio. L’aveva trovata semplicemente grande. Spiegava in qualche modo, seppure in chiave pericolosamente allegorica, ciò che non poteva più riferire di una forma di accanimento nei confronti della vita. Suo figlio aveva anche detto che la morte è anche un po’ pasticciona…come dire che prende per caso e che fa confusione, a volte. Non ha, insomma, un suo registro preciso. Perché dovrebbe averlo, poi? Sarebbe affermare che c’è un disegno…e quant’altro. Per chi batteva quel cuore? Quel corpo non era più. Quelle vene massacrate, non sembravano raccogliere nessun fluire di sangue. Cosa spingeva, quella, miccia a non perdere i colpi? La pelle, come stirata sulle ossa, sembrava raccontare di una morte in atto o, peggio ancora, già avvenuta... E lei, godeva di quelle mani sfilate, eleganti come non mai. No, non lo erano mai state. Oggi poteva, finalmente senza ribrezzo, accarezzarle, farle sue. Forse, il suo sfinire così aveva quindi un senso… Le regalava questi momenti. Quante volte, per quelli, avrebbe scritto la parola rimorso? Voleva scrivere la parola fine, quella notte e forse, c’era già stata. Era stanca ma non abbastanza. Forse. Come lei. 28 giugno 2022 Madre, ci sei ancora? Cosa ho dimenticato? Cosa mi sfugge? Cosa devo ancora capire? Seppure per caso, parole come amore, preghiera…le ho usate. Puoi andare…perché la parola perdono non mi chiuderà mai. Nessun uomo, nessun dio, dovrebbe mai usarla. Rimango in attesa Di quella roccia, sei il vanto Di quell’animale che mordeva il tuo frutto l’assassina Della mia parola L’origine indiscussa La carne che diventa verbo Orrore 29 giugno 2022 La notte del 5 luglio 2022, La Morte aveva fatto il bucato e questa volta, si era ricordata di lei e per sua stessa ammissione, aveva avuto difficoltà sul programma di lavaggio. Aveva aspettato troppo, quel povero corpo. Quale potente additivo avrebbe saputo cancellare le tracce di cotanto scempio? Perché la vita si era accanita con lei fino al punto di togliere anche alla morte la sua prerogativa? Nulla, infatti, proprio nulla avrebbe potuto restituire a quel tessuto offeso, corrotto fin nella sua più intima trama, macchiato dell’inverosimile, ancora un benché minimo segnale, anche solo un dettaglio che potesse ricondurre a parole come dignità, esistenza o anche solo…compassione, forse? Nessun additivo, nessun programma… Solo un’altra morte. Forse. 8 luglio2022 Lei, la madre, era tutta lì. Appoggiata accanto alla sorella, sul sedile di un’auto improbabile, in quel sacchetto blu che ricoverava l’urna perché fosse più pratico il trasporto delle ceneri… Tutto lì
Anna Maddaluno
Breve racconto
Opera in Concorso
"Attimi" Accade all'improvviso, una mattina che non ti aspetti. La tua vita è attaccata ad un filo ma tu non puoi muoverti paralizzata dal dolore. E allora si attiva tutto il mondo per te. Non c'è un attimo da perdere, potrebbe essere già tardi. Poi tutto è buio e ti ritrovi sdraiato, ancora impossibilitata a muoverti. Hai male dappertutto....ma ce l'hai fatta, Ce l'hanno fatta! Non ti sembra vero, sei proprio ed ancora tu. Tutto il mondo che conosci e le persone che ami sono qui con te. E chi non è con te fisicamente lo è con il cuore e l'anima. Il cielo porta a te centinaia di braccia che tutte insieme ti sorreggono nel momento in cui sei più debole. Sperano di essere forti, tifano perché tu resti lì con loro. E piangi, non di tristezza o rabbia, ma per la gioia di esserci e di poter abbracciare e rivedere tutti. Forse qualcuno non crede nei miracoli, ma tu si. È andato tutto bene, e dopo la discesa ricomincia la salita. Ripida, fai tanta fatica ma non importa. Lentamente, lentissimamente recuperi forza, la forza di ritornare a vivere e salutare quel cielo che ti aveva quasi portato con sé.
Alina Rizzi
Poesia
Opera in Concorso
Fiori rossi Che l‘età avrebbe dato frutti non era pensabile ma che i frutti sarebbero stati rossi forse più plausibile – rischiare avrebbe avuto conseguenze non altrettanti dubbi. Benché scordare le regole bofonchiate dal Vecchio Bianco non era stato difficile per Eva lo fu per me – seimila anni di tentativi falliti mi avevano alquanto arrugginita.
Germogli Nessuno sapeva quanto era buia la terra in cui annaspavo ogni santa domenica benedetta e dannata dal tuo sguardo lontano. Né della fatica a correre tutt’attorno perché il tempo scivolasse nella sera o anche dell’immobilità in cui giacevo – pietra al sole in attesa che mi rifiorissero le braccia e mi spuntassero germogli dalle unghie che la mia testa tra le tue mani percepisse nuovamente fremere il vento l’aria lacustre dalle finestre aperte con gli occhi invasi d’azzurro.
Corolle Quanti momenti può donarci la vita da ricordare per sempre senza sbavature né abbellimenti? Quante opportunità può concederci questo karma oltraggiato che non accetta preghiere? Non ci resta che fiorire in stagioni propizie aprire le corolle affamate di luce abbeverarci di sole e trepida brezza prima che di nuovo s’annuvoli l’orizzonte e torni il freddo a scricchiolare nelle ossa a ricordarci che l’estate viene sempre prima dell’inverno e noi siamo nel cielo niente di più – del tempo che sapremo accogliere.
Quasi un’invenzione Il mio tempo non esiste non c’è un prima e non c’è un dopo ma una disfunzione dell’anima dal karma sentenziata. Sono viva istante per istante per lo più già morta con le radici immerse in una terra scura che non oso contemplare. Non fosse per quell’unico abbraccio le mani attorno alla vita le dita intrecciate negli anni -più deboli e determinate – mi stenderei serena ad accogliere i corvi dal becco giallo così grati delle briciole di pane che ogni mattina distribuisco sul prato.
Andrea Diella
Poesia
Opera in Concorso
Murice Cuori gialli pulsano per le vie, batte il tempo del silenzio di giada, gocce d’ assenzio bruciano il vespro, tra tetti d’ Ottocento telamoni sostengono il peso d’ anime senza un senso, dall’ atmosfera cobalto In rilievo lesene, arnie ondeggiano nel vuoto prigioniere silenti brillano in catene, ogni luce diviene selva all’ angolo d’ ombra, ogni luce fascina l’oscura matrice, quando muore il murice spiriti brindano col calice attendendo il primo crepuscolo.
Dolce risveglio Tue le vele sul mare di pelle issano perle sul mio stomaco rosei rami abbracciano il mio tronco fumi densi nella stanza disegnano fioche caravelle, polvere di luce, come l’arabo abaco entrano dalla finestra, ad uno ad uno conto come in sogno questa danza quest’ attimo e il tuo odore di timo breccia fra le tue mura dolce risveglio la nostra cura.
La Passante Quell’ iride acerba coglievo tra mille che cadevano timide sulla via e a passi di treno correva in gola l’amaro candido d’ attimo apriva il nocciolo di me. Un brusio le labbra elettriche nei cavi dell’anima che non saprà mai il tuo nome.
Sul Duomo Sguardi si accarezzano sotto mani giunte di marmo rosa le labbra pregano per un altro rintocco che suona assordante nelle vene. Un secondo di pietra tremiladuecento sospiri e non è più cattedrale.
Eddi Pettenò
Poesia
Opera in Concorso
Ad AMEDEO Modigliani Posso chiamarti Dedo? Anch’io ti ho dipinto. Eri davvero affascinante, bellissimo. I tuoi occhi erano meravigliosi: svelavano la tua dolce anima. Nelle persone che ritraevi, cercavi il loro mistero, la loro essenza. Eri capace, sensibilissimo, curioso, affamato di vita. Vulcanico, geniale, pieno di energia, circondati da moltissimi amici ed amanti. Con la voglia di cambiare e di rivoluzionare la pittura e la scultura.. Se da un lato sei stato il Modigliani elegante, amante del lusso, aristocratico Dall’altro eri il Modì (“maledetto” in francese) che viveva in miseria, alcolizzato, fumatore di oppio e malatissimo di tubercolosi. La tua vita è stata brevissima, “spericolata”. Avevi avuto tutto e quel tutto lo hai perso. Il tuo unico scopo forse fu quelli di salvare i tuoi sogni.
A te Ci sono partenze definitive, magari annunciate, ma non comprese. Forse per non volerle accettare. Quanti musi lunghi, quanti silenzi assordanti, quante mancanze ci sono state tra noi di abbracci, di amore. Adesso è tutto finito: tornare indietro nel tempo è impossibile. Non ci sarà un altro giorno domani. Ora sei nel cardellino del mattino, nella bianca farfalla, nella mutevole nuvola, nelle stelle della sera. In tutto ciò e nelle persone che hai amato E nella mia anima Per sempre.
Figli Eravate gia nei miei pensieri di bambina. Desiderati ed attesi con trepidazione ed impazienza. Amati, per sempre, dal primo sguardo. Coccolati, viziati, assecondati, resi adulti maturi. Ed anche ora vi aspetto, come un tempo e quando, finalmente, vi vedo sono colma d’amore come la prima volta.
Modi e Jeanne È stata una magia Incontrarsi, innamorarsi, convivere. Le nostre anime si sono Riconosciute e sono diventate una sola. Povertà, fame, malattia Non ci hanno separati. Neppure la morte ci ha divisi. Amor omnia vincit.
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Cinzia Galimi Poesia Ciro Esposito Poesia Luisa Di Francesco Poesia Luisa Di Francesco Libro poesie Lucia Spezzano Poesia Lucia Spezzano Breve racconto
Anna Carmelino Saracino
Poesia
Opera in Concorso
Poeti per strada La vita questa vita, non ascolta se pur le si parla, sussurra ancora, non ascolta. Degenerata vita sei facile nel dar, i tuoi talenti a chi per caso ti strizza l'occhiolino, non vuoi proprio, la longevità. Se affidassi le tue correnti migratorie alle doti, faresti, un salto di qualità, non meriteresti aspetti scialbi la crudeltà, ti strappa le sicurezze. Le battute che deridono i cenci armati si vendono illusi e noi liberi per le strade, componiamo i nostri versi, perché Poeti.
Rinata Vedi il tuo umore lascia che sia lui a tremare per difetto che importa ha creduto, ed è deluso Il perfettismo l'ha superato lasciando dietro di sé il magone, una bend stonata che si scorna tra rumori e disarmonie ma che fa è lui ad inciampare, rotola, quasi, precipita lungo la sconfinata area. Sciame di colori, pennellate verdi, terricci, ormai fiorita. Cornice appesa ad una parete è perfetta: sei rinata!
Ti insegna, impara: Che spessore in questa frase stracolma di canoni incombenze responsabilità: decisionali! Questo il tuo aspetto differimento che c'è di male nella libera beatitudine se e quando trovasi qualcuno è da far vivere e lasciar vivere. È folle il rumore di chi grida per piacere abbracciamoci per nulla perdere guarda e non gridare al tuo cuore: "Aiutami, aiutami non ce la faccio"! così ti perdi non ricordi la pura fedeltà quanto questa e l'altra eternità.
Il messaggio del poeta: amarsi un pò! Taormina 24 luglio il sole brillava sui fianchi etnee alture le brine asciutte variopinti colori i fiori maculati (violette) erbetta filina corolle di margheritine nel viottolo noi due care persone erbacee gira e volta (girasoli) contati steli. Nel basso i fianchi canaletti rumorosi cinguettii armoniose bolle d'acqua qual divino il suscitar corre.
Cinzia Galimi
Poesia
Opera in Concorso
Patriarcato Provo a rispondere al nulla ma la mia voce è vuota, un buco nero. Il vostro è un monologo, un assolo prepotente su cui non ho voce: un rantolo forse o un vagito senza parola, miriadi le vostre così piene di verità
Gaza Dalla nostra bocca nessun suono mentre si compie strage di bambini. Dalla nostra bocca nessuna parola mentre si sgozza e si stupra nel campo del vicino. Dormienti sogniamo un mondo più giusto di pacifisti e vegani. Accanto a noi l'umanità si consuma. Del cuore è nero vuoto il nostro petto.
La mia anima è un tempio (mottetto) La mia anima è un tempio, io stessa vi entro senza scarpe. La mia anima è un tempio e io lo frequento nuda. Mentre pratico te come se andassi al polo nord.
Vecchiaia Lo senti questo bisogno di vita come un'urgenza? Il tempo è poco limitato a stagioni di nulla. Un breve volo accarezza foglie tenere di verde, come pensieri che si agitano. Respira ancora corpo scialbo di tante rughe, come ferite ti hanno solcato. Risveglia la tua corteccia dura al sole di sempre. Una luna nuova ti accoglierà nella terra e ti farà vivere ancora.
Ciro Esposito
Poesia
Opera in Concorso
Sotto la cenere Illuminati occhi alta la fronte ne serbavo il ricordo, come il lapillo che cova sotto la cenere. Lustri passati ne sentivo il calore, un refolo africo risveglia l’inaspettata fiamma. Semplice e trasparente dal cuore grande, s’è ripresa la vita guardando altre il suo pianto. Tu, che dei miei versi or sei custode, lasciati cullare in questo mar, schiudendoti a nuovi orizzonti.
Reti vuote Reti raccolte, alitato libeccio inebria vele tra acque increspate. Mani avvizzite, segnate da granelli di sabbia, dirigono la prora su custodite rotte. La canizie non sfugge all’ineluttabile, con il viso arso come grani e raggrinziti ricordi affiorano, della umana eredità paterna. Esule tra onde veleggia, in una culla vuota e senza governo, lacerate reti si trascinano sgonfie.
Veli Caduti Veli caduti di anime frante che s’erano alzate, schiudendo palpebre di lacrime incolte. Svelati son gli occhi di donne coraggio, che hanno stretto in mano le sorti di un popolo già Grande.
Beate immagini Parole al vento che non sanno d’aria, ma di dolore che ha mangiato sale e del pianto antico che non sa tornare. Di stagioni bianche si copre il viso che l’acqua non lava se non sei qui a condividerne le crepe. Desolato riavvolgersi di mirrate immagini, il chioccolar dell’acqua di un ruscello, il balzellar d’uccelli a primavera, tra cui, seperoso, m’adagio.
Luisa Di Francesco
Poesia
Opera in Concorso
A maggio Ritorna vuota dalla proda dei tetti un’orbita devastata e contorta s’alzano tessiture di polvere fragili e misteriose -parola pietosa non prolunga l’infinito- sopita e sciupata intride senza posa s’aggrappa al passato dispera e muore cambiando modo di voce. Caligine di guizzi in una bracciata di rovi e il ginepro contro un sasso risuona più vicino. Il luccichio di un canto nel maggio del mattino.
Ad aspettare la luna Sembra torpore malevolo è timore di vita. Il silenzio mette radici cede frammenti di sogni sull’orlo della tinozza che monda i rimpianti: gli errori tenuti distanti. Lunghe lingue aguzze non lambiscono dubbi nelle ferite aperte la sofferenza aleggia e livida la mente. Sono pensieri i vicoli tortuosi veleno di passi, senza ritorni. E mi penso, chiuso tra i muri a rimestare gli affanni. E non so più uscire, ad aspettare la luna.
Il porto dell’anima La notte disfa l’alba adduglio pensieri in ore. Svegliami voglio volare lontano oltre le ombre di un giorno chiuso in una valigia sentire gli uccelli parlottare tra i rami e stare come seduto nelle cose fra le onde che non approdano e la gomena filata ad ormeggio. Voglio essere voce solida dell’anima perché il sole sorge sempre e dal suo cielo irraggia il letto delle mie parole. Cieco di rimpianti, traccia il suo cerchio ma non basta a sopravvivere toccare terra e non solo acqua in un altro mattino inerte se la fortuna non arena l’anima al suo porto.
Anime bianche Tra echi di quiete nel mezzo del fango tra scarni passaggi coperti di affanno tra campi di ossa frantumi di lotta tra giovani arbusti di vita distrutta tra fiori spuntati su marmi divelti tra fili di erba di sangue schiarita ove s’espande la linfa svanita lacrime di pietra in giovani madri piegate, su corpi di figli mai nati. Il silenzio annuncia l’orrore del suono chiamato dolore. Grido straziato di vinti innocenti. Anime bianche, di puro lucenti. (Striscia di Gaza)
Luisa Di Francesco
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Lucia Spezzano
Poesia
Opera in Concorso
iNNO GREGGIALE DELLE PECORE LIBERE Uomo che credi di essere il più saggio, fra gli esseri viventi del creato, non sai che hai perso tutte le occasioni, per evitare lo schifo che hai combinato. Eri nato per fare il grande direttore, tu che nel mondo eri il più dotato, ma hai orchestrato tutto con l'odio, e dell'amore... ti sei dimenticato. Ed ora sfoghi le tue frustrazioni suonando il clacson da incazzato. Uomo che dici di avere un linguaggio, ma quando parli cerchi d'ingannare, e con l'ipocrisia che hai nel profondo vorresti comunicare con il resto del mondo? Uomo che ti sei venduto per tre note d'allegria, non sapevi che la gioia dura poco, ed il resto è malinconia. Ed io che sono soltanto un animale, ma un buon consiglio te lo posso dare: se non vuoi fare la fine del deficiente, fatti venire un cervello trasparente.
LA MORALISTA 'Na tartaruga nun se dava pace, perchè nu je riusciva de grattasse bene in fonno al carapace. Già un' artra vorta che c'avea provato, pe 'na manovra un po' troppo azzardata, s'era trovata col bel risultato... de sta' a rovescio pe' n'intera giornata. Perciò a 'n lifante che s'annava a bere, je chiede gentilmente: “Per piacere, non é che me potresti da' 'no struscio, proprio in fonno ar guscio, appena sopra 'l sedere?” “'Na bella grattata, n'se nega mai, specie a quarcuno che già sta' nei guai.” Risponne el lifante ch'era de bone maniere e je inizia er massaggetto con piacere. Er tempo de di': “A che sollievo! A che piacere! A che delizia! 'Sta bella grattata soda, quasi me fa veni' un brivido de coda!” E passa de lì 'na razza moralista de zanzara, che senza manco abbassa' er tono de fanfara je grida a tutto fiato: “A sozzi pomicioni, v'ho beccato!…” E sempre con 'sta stridula voce: “Stateve accorti immondi peccatori, che... che... mo' ve metto in croce!...” A senti' 'ste fregnacce tanto azzardate, er lifante se convince subbito a concederje un minnimo de du proboscidate. Una: per poterla stampa' a contrasto duro, l'altra: per ottene' 'n ingrandimento a fonno scuro. A parla' male ed a sproposito de 'na tartaruga, se po' rimedia' magari quarche scusa... Ma a tira' accuse infondate a 'n ilifante adurto, é raro che te possa perdona' l'insurto!...
IL REDENTORE Quello che vedi in terra é già giusto così com'è, ma non potrai capirlo mai se non ti chiedi il perché? Il mondo è un letamaio, ma per chi fede non ha nella gran forza dell'amor che tutto trasformerà. Il mondo è un letamaio, ma solo per chi odierà, e non potrà conoscere amore, gioia e pietà. Mi raccontavan, quando ero bambino di un Uomo che insegnava a perdonare, mandato forse in terra da un destino che gli uomini voleva tutti salvare. Perciò era nato povero fra i poveri ed aveva scelto la notte di Natale ed anche se sapeva fare i miracoli voleva che il miracolo più grande lo facessero gli uomini trasformando in bene tutto il male. Ma mentre Lui diceva che soffrire era il modo migliore per capire gl'han contestato che dovea provarlo e l'hanno condannato sul Calvario. E forse solo allora hanno capito, che un Uomo che riusciva ancora a pregare per quelli che l'avevan crocifisso era qualcuno che insegnava ad amare. Il mondo è un letamaio, ma un fiore sboccerà e la gran forza dell'amor tutto trasformerà. Il mondo è un letamaio, ma è una necessità, per far crescere l'albero della felicità.
LA CATENA DEGLI SCONTENTI Chi c'ha er pane nun c'ha i denti! Chi c'ha i denti nun c'ha er pane! Chi c'ha pane e denti nun c'ha er salame! Chi c'ha pane, denti e salame si strugge, perché je manca la bicicletta! Chi c'ha i denti, er pane, er salame e pure la bicicletta, se duole di non averci la barchetta! E chi già con tutte 'ste cose c'era nato, ma guarda che disdetta, c'aveva poco buon senso e, in compenso, troppa fretta! Mejo.... farse abbasta' quel che già c'hai, cercando di tenersi er più possibile lontano dai guai!
Lucia Spezzano
Breve racconto
Opera in Concorso
Il Maharaja ed il Saggio C'era una volta un Maharaja, che malgrado possedesse enormi ricchezze e un piccolo harem di bellissime fanciulle, non riusciva più a sentirsi felice; non provava interesse per alcuna cosa ed il suo sogno maggiore era quello di guadagnarsi il sonno eterno. Siccome il Maharaja era un uomo giusto, il suo popolo gli voleva bene e lo riteneva indispensabile per la felice continuazione del regno. Così segretari, ministri e persone a lui vicino avevano cercato di interpellare medici, maghi e tutti gli illuminati, nella speranza di poter guarire il loro caro sovrano. Ma ogni tentativo risultava vano: la salute del Maharaja peggiorava sempre di più. Un giorno, un ambasciatore, che rientrava da terre lontane, riferì di aver sentito parlare di un Saggio, che aveva miracolosi poteri per far ritornare a chiunque la felicità. I ministri si diedero subito un gran da fare e non ebbero pace fin quando non riuscirono a convocare a corte il Saggio. Il Maharaja era molto scettico; ma l'uomo gli disse: "Se in capo a due mesi non sarai ritornato felice, mi potrai tagliare la testa; ma per guarire devi seguirmi da solo, senza portare appresso null'altro che un saio come quello che io vesto e dovrai assolutamente ubbidire a tutto ciò che ti dirò di fare." Il Maharaja accettò la proposta e i due se ne andarono come umili pellegrini. Camminarono, camminarono per giorni e giorni, fin quando raggiunsero lo sperduto paese del saggio. I pochi poveracci, che lo abitavano, conducevano una vita grama, dandosi un gran da fare a lavorare la terra pietrosa per trarne quel minimo necessario alla sopravvivenza delle loro famiglie. Il Saggio disse al Maharaja: "Domani ti sveglierai all'alba e andrai a lavorare insieme ai contadini, che ti insegneranno a coltivare la terra." Quando il Maharaja rientrò alla sera dal lavoro mangiò con grande appetito il pane inzuppato nella minestra di ceci, poi si coricò e riposò con piacere, come non faceva da tempo. Dopo un mese di questa vita il Maharaja era tornato allegro e contento; disse al Saggio: "Mi hai convinto! Ma non posso ancora affermare di essere completamente felice, perché penso sempre al mio regno, alle mie mogli, ai miei figli: mi mancano molto." "Appunto!" - ribadì il Saggio -" Sarai felice solo quando sarai ritornato, perché ora hai potuto sentire la mancanza di ciò che già avevi e non ti dimenticherai più di questa esperienza..."
Un contadino che lavorava con il Maharaja, udendo la strana storia disse al Saggio: " E' facile essere felici quando si ritorna alle proprie ricchezze, ma a me, che non ho nulla e fatico invano per raggiungere la felicità, non sarà mai concessa una tale fortuna." "Ciò che asserisce quest'uomo" - sottolineò il Maharaja -" è pur vero; ecco dunque una persona che non potresti guarire..." Allora il saggio rispose: "Tagliami pure la testa se in capo a due mesi non riuscirò a guarire anche costui." E preso il contadino lo racchiuse in una gabbia, che fungeva da prigione lasciandolo con una ciotola d'acqua e una radice di rapa. Passato qualche tempo, andarono a liberarlo ed il contadino, che ora sognava solo la libertà, esclamò, uscendo: "Questo è il giorno più bello della mia vita!" "Beato lui!" - brontolò un condannato a vita, che stava nella prigione accanto - "Ecco una felicità che io non potrò mai avere per il resto dei miei giorni." Il Maharaja, per la seconda volta, puntualizzò: "Ciò che dice quest'uomo è pur vero!" Il Saggio non si scompose minimamente; rispose: "Tagliami pure la testa se in capo a due mesi quest'uomo non ritornerà felice." E fatta portare una croce dentro la gabbia, lo inchiodò per benino trapassandogli mani e piedi. Non passò molto tempo che il prigioniero si convinse di essere molto fortunato a stare nella prigione, purché gli levassero i chiodi. Allora il Maharaja, rivolto al Saggio sentenziò: "Tu sei veramente il più saggio degli uomini, che ho conosciuto, puoi venire alla mia corte e prendere quello che più desideri." Il Saggio rispose: "Ti ringrazio ma non me ne farei nulla delle tue ricchezze." Il Maharaja ribadì: "Ma ci sarà pure qualche cosa, che ti potrà fare veramente piacere." Il Saggio si limitò a sorridere; allora il Maharaja, sempre più incuriosito, gli chiese: "ma tu, che sei così saggio, sarai certamente felice..." e l'altro "né felice, né infelice, semplicemente saggio." Allora il Maharaja aggiunse: "Non potrai rifiutarti di prendere in moglie la mia figlia maggiore, oltre che bella è anche intelligente: sicuramente ti farà felice." "Forse!" rispose il Saggio. "Ma questo non mi darebbe comunque la felicità completa." Allora il Maharaja terminò: "Non ho detto che sarai felice quando la sposerai, ma bensì quando riuscirai a riprendere la tua libertà, per quel tanto che ti sarà concessa.”