INDIRIZZO
Corso Garibaldi 17
20121 Milano
ITALIA
CONTATTAMI @
Giovanni Malonni
L’ansia
Una musica lenta d’organo
sale e riempie la mia piccola
stanza assorta nell’ombra
di una quiete che dice
al mio cuore pace.
E pace in coro mi cantano
gli uccelli di sopra i tetti.
E le nuvole di lassù
si muovono leggere squarciando
a tratti il cielo blu.
Ma nulla! Invano si tenta
di sciogliere quel nodo
aggrovigliato entro al mio petto!
Madrigale triste
Vapori umidi di pioggia
si levano dai tetti e si dissolvono
nel cielo terso
portando ovunque messaggi
lugubri di morte.
Dentro persone in solitudine
raccolgono i loro corpi aggrovigliati
e contorti da spasmi
di ostinata angoscia!
A una donna Angelo
Non so se in una chiesa o per la strada,
mi sei apparsa in un attimo,
come il lampo improvviso prima del
temporale,
e la mia mente allora abbagliata
rivive della tua luce.
Rivederti o conoscerti meglio io non cerco,
anzi non voglio.
Altro non voglio che distrugga
la tua divina figura.
Regina o zingara che importa!
Venere nata dalla tempesta
o dalla schiuma del mare
che importa!
Demone o angelo che importa!
Io questo non voglio sapere -
più in là non oso.
Io voglio serbare nella mia mente
la tua candida immagine,
anche quando in me più non sarà poesia
anche quando ormai i caduchi tuoi petali
si troveran nel fango!
Ascoltare il silenzio
È osservare il sole pallido e stanco
posarsi sulla campagna.
È osservare l’ombra chiara della luna
nelle notti d’inverno.
È sentire il suono lontano
di una campana.
È l’abbaiare solitario di un cane
nella notte.
È la pedata stanca di un uomo,
il rumore di un carro
che all’alba riprende il suo cammino.
È il corpo esausto del guerriero
dopo la battaglia.
È vedere i tuoi occhi languidi
fissi all’infinito.
È il mio cuore che palpita adagio
privo di ogni sensazione.
O sordi rumori! Quando mai potrò
più risentirvi?
Dolci ricordi di un tempo!
Io sto correndo dietro al vento
e più ormai non m’accorgo,
più non vi sento!
Poesia
Opera in Concorso
Isabella Sandon Tenca
Poesia
Opera in Concorso (in definizione)
Specchi
Parlano in noi
lastre di vita
ridotte in frammenti
tracce significanti
del magico specchio
caverna antica
delle nostre paure
ridotte a riflessi confusi
Libellule
Aeree trasparenze
si librano leggere
poeticizzando la pozza
d'alta montagna.
Ed è danza musicale
Il loro accoppiarsi
La città
Alla luce del tramonto
i grattacieli di vetro
diventano specchi seriali
di luce rosa-dorata
su campo grigio acciaio
Gabbie
Ognuno sta chiuso
nella sua gabbia
di tempo, luogo e tabù.
Solo la bellezza ha le chiavi
che aprono le gabbie
Francesco Di Garbo
Libro
Opera in Concorso
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Francesco Di Garbo
Racconto
Opera in Concorso
L'EREDITÀ DELLA GUERRA
#Me ne andavo come ogni mattina con le pecore a pascolare
quando davanti a me un colono armato fino ai denti vidi sbucare
voleva che di punto in bianco andassi via dalla mia terra
sosteneva che adesso sua era diventata senza manco pagarla
esibiva un falso anomico rogito israeliano a testimoniare l'esproprio
truce con la forza tracotante delle armi mi voleva esautorare
poi una ruspa fece arrivare e in due-tre la mia casa fece crollare
non contento mi voleva ammazzare per fare piazza pulita
di tutti gli arabi in Cisgiordania e per darmi prova ch'era serio
le mie pecore prese a sventagliare tanto per morire d'inedia
volermi abbandonare in barba ai diritti umani universali
e degli accordi di Oslo stipulati e a Camp David controfirmati.#
***
Tra
le
gare
sportive
le
staffette
hanno
un
fascino
particolare.
Il
passaggio
di
testimone
entusiasma
anche
il
più
negletto
degli
spettatori.
In
effetti
non
vincono
gli
atleti,
vince
il
testimone
che
rappresenta
la
nazione
più
che
i
protagonisti.
In
sport
prettamente
individuali
le
staffette
sono
gare
collettive.
Il
testimone
deve
arrivare
al
traguardo
sano
e
salvo
senza
cadere
a
terra.
L'incidente
nel
passaggio
da
una
mano
all'altra
è
dietro
l'angolo
per
una
svista,
un'incomprensione
un
piccolo
errore
d'intesa
tra
gli
atleti.
Ciò
che
entusiasma
nelle
staffette
è
che
oltre
all'impresa
sportiva
esse
rispecchiano
il
senso
della
vita
comunitaria.
L'impresa
singola
pur
essendo
intrisa
di
motivi
ed
aspetti
esistenziali
rimane
fine
a
se
stessa
all'interno
della
specifica
storia
individuale.
Nel
suo
corrispettivo
comunitario
l'impresa
collettiva
delle
staffette
riguarda
il
passaggio
generazionale familiare o di comunità.
Il
testimone
assume
un
valore
metaforico
e
simbolico
non
indifferente
per
la
vita
umana
volta
a
tramandare
e
trasmettere
alle
generazioni
future
le
conoscenze
e
i
fatti
del
passato,
facendo
proprie
le
esperienze
vissute
per
rinnovarle
nel
futuro
ad-venire.
E
semmai
modificarle
e
perfezionarle
per
migliorare
l'esistenza
familiare
o
collettiva.
La
tradizione
tramandata
non
può
restare
statica
com'era
nel
passato,
ma
dal
passato
va
preso
cosa
c'era
di
buono
depurandolo
da
cosa
non
andava
e
riadattare
la
tradizione
alle
nuove
esigenze.
Tuttavia
si
ha
la
sensazione
che
dalla
tradizione
viene
preso
cosa
c'era
di
cattivo
per
perpetuare
le
ingiustizie
e
le
disuguaglianze,
mentre
il
buono
viene
accantonato;
sembra
che
la
storia
non
ci
insegni
nulla
e
ricommettiamo
sempre
gli
stessi
errori.
Chi
ha
in
mano
le
leve
del
potere
si
abbarbica
alla
tradizione
in
questo
senso
per
continuare
a dominare senza cambiare nulla. Di contro predicano il cambiamento per continuare ad avere in mano le leve del potere: quindi razzolano male.
Il
testimone
ha
valore
quando
le
cose
cambiano
sia
nelle
persone
quanto
nei
fatti,
non
per
razionalizzare
la
realtà,
ma
per
renderla
razionale
secondo
i
criteri
e
i
principi
logici
e
non
solo
matematici.
oggigiorno
invece
domina
la
quantità
a
discapito
della
qualità,
la
quantificazione
della
guerra a discapito della qualificazione della pace.
È
sempre
successo
nella
storia
che
i
morti
hanno
lasciato
il
testimone
ai
vivi
affinché
continuassero
la
loro
opera;
essere
testimoni
del
loro
sacrificio
per
redimerlo
affinché
esso
non
sia
stato
compiuto
invano.
I
vivi
lo
devono
testimoniare.
Tuttavia
spesso
le
ingiustizie,
il
terrore,
i
drammi
creano
talmente
tanto
di
quell'odio
che
chi
raccoglie
il
testimone
viene
posseduto
dalla
vendetta
e
vive
con
questo
scopo:
giusto
o
sbagliato che sia. È così che si generano le faide tribali, l'odio etnico e si perpetua la guerra tra le famiglie e i popoli.
Mauro
aveva
ottenuto
quell'incontro
audio
per
vie
traverse
indicibili;
le
fonti
devono
restare
sempre
anonime,
recita
il
primo
principio
del
giornalismo.
Abed
dopo
aver
tentennato
parecchio
e
vagliate
le
conseguenze
aveva
accettato
di
dire
la
sua
con
tutte
le
cautele
del
caso.
Ed
era
un
fiume in piena di parole, a partire dall'operazione “Piombo Fuso” del 2008 per non risalire al 1948.
“Il
paesaggio
intorno
a
me
non
mi
sembrava
vero,
mi
giravo
e
rigiravo
per
averne
piena
contezza
e
pensavo
d'essere
dentro
un
film
di
fantascienza.
Cercavo
in
tutti
i
modi
di
tornare
alla
realtà
ma
non
ci
potevo
credere.
Realtà
postatomica:
sublime
devastazione
da
percezione
subliminale,
macerie,
sangue,
morti
e
polvere.
Scene
di
quelle
che
neanche
in
televisione
vorresti
vedere
e
io
le
toccavo
con
mano,
le
vedevo
dal
vivo.
Ero
vivo?
Mi
sembrava
d'essere
in
un
altro
mondo,
nell'oltretomba.
M'avevano
appena
estratto
da
sotto
le
macerie,
tirato
fuori
dalla
tomba”.
Quando
si
guardano
queste
scene
in
televisione
ci
si
commuove
e
si
piange.
Atrocità
reali
non
film
distopici
horror.
Reale
realtà
sovradeterminata,
irrazionale.
“Mi
tirarono
fuori
vivo
per
miracolo,
ma
non
era
un
miracolo.
Era
la
mano
dell'uomo
altroché
miracolo,
i
miracoli
non
esistono.
Non
c'è
nulla
da
disquisire
sopra
i
miracoli,
sulla
mano
dell'uomo
sì,
molto.
Anche
se
tanti
non
ci
credono
e
fanno
gli
struzzi,
si
arrampicano
sugli
specchi
per
trovare una minima catarsi giustificativa, apologo sub iudice di discolpa”.
Corpi
straziati
intorno
a
me.
Corpi
martoriati
vagavano
come
ombre
fugaci
alla
ricerca
del
senno
perso,
qualche
straccio
qualche
brandello
una
pentola
perforata,
una
coperta
sfrangiata.
Dissennate
mani
sul
grilletto
con
tute
da
robocop
indossate
sventagliavano
proiettili
a
bizzeffe
su
chi
raccattava miseri resti da riciclare per un presente ignobile da affrontare.
“Una
forchetta
ricurva
gli
sembrò
un'arma
micidiale
e
subito
sparò
per
rendere
innocuo
il
ragazzino
che
la
teneva
in
mano:
robocop
col
grilletto
facile”. Si sparava anche alle pecore per non dare da mangiare ai bombardati.
“Vidi
il
ragazzino
traballare,
accasciarsi
e
rialzarsi
che
alla
morte
non
si
voleva
rassegnare”.
La
madre
con
le
mani
al
cielo
si
disperava
e
io
singhiozzavo. “Mi porsero una bottiglia impolverata con un fondo d'acqua per ripulire la gola dalla polvere incrostata”.
Più in là un carrozzone si strascicava per la strada con alcuni morti sopra ricoperti con la bandiera Palestinese”.
Non
c'era
più
pietà.
Era
morta
e
sepolta
anch'essa
trucidata
dalla
mano
dei
politici
in
auge
puliti
col
doppiopetto
del
popolo
eletto/negletto.
Demoni
incarnati,
esodati
paralizzati
di
fronte
al
roveto
ardente
che
si
beano
dell'ipertrofica
tronfia
elezione
supereroi
da
sentirsi
i
migliori
al
mondo; visione sionista-fascista. Visione daltonica!
“Dire
“atrocità
inaudite”
è
un
eufemismo
plaudente,
un
encomio
assolvente.
I
potenti
se
ne
stanno
a
guardare
e
lasciano
fare
all'avamposto
dell'impero.
Per
reconditi
motivi
all'ONU
non
mettono
il
veto,
nel
senso
che
i
motivi
si
sanno
benissimo,
ma
sono
reconditi
in
quanto
deplorevoli
e
grevi”.
In
mezzo
a
questo
paesaggio
lunare
non
mi
ritrovavo,
avevo
perso
ogni
lucida
cognizione
reale.
Ero
lì.
Tanti
visi
lerci
anneriti
a
mani
nude
scavavano in cerca di cadaveri.
“E
cosa
volete
trovare?
Qui
anche
i
vivi
sono
morti!”.
Diceva
una
voce
fuori
campo.
Parenti
e
amici,
grandi
e
piccoli
scavavano
mentre
una
torcia
illuminava le tenebre. Era tutto così tenebroso che il cielo non si vedeva sebbene fosse pieno giorno.
“Un
signore
che
non
riconoscevo
come
mio
padre
faceva
leva
con
una
stanga
a
sollevare
una
trave,
fare
un
pertugio
per
andare
in
giù
nel
palazzo
ridotto
ad
un
cumulo
di
detriti.
Un
altro
che
non
riconoscevo
fosse
mio
zio
si
disperava
che
li
sotto
c'era
sua
moglie
e
sua
figlia
di
sette
anni,
la
mia
cuginetta con la quale giocavo a tre sette e disegnavo sulle carte...”.
Lo
chiamarono
alla
ricetrasmittente
e
si
allontanò
di
corsa.
Mauro
restò
nell'ospedale
da
campo
di
MSF,
dov'era
ospite,
con
l'attendente-
traduttore
che
gli
descriveva
la
situazione
nel
reticolo
dei
tunnel,
di
come
li
avevano
scavati
e
come
li
gestivano
a
compartimenti
stagni.
Dopo
quasi un'ora Abed tornò al microfono, accalorato ma rilassato. Riprese il racconto.
“Mio
nonno
furtivo
era
entrato
dopo
le
prime
bombe
per
svegliarci
e
farci
uscire,
stava
prendendo
un
cappotto
per
ripararsi
dal
freddo
e
rimase
intrappolato
come
un
dannato
alla
Cayenna.
Stava
aprendo
l'armadio
e
tutto
crollò
in
un'istante,
un
colpo
sordo,
un
tonfo
sordido
e
la
deflagrazione
fece
il
suo
effetto
orbo”.
Schegge
rimbombanti
impazzavano
mentre
l'edificio
s'afflosciava
sotto
una
nube
di
polvere
che
s'ergeva
al
cielo, inalberandosi come un fungo. La chioma era grigia e densa, occludente le vie respiratorie a chi ci capitava in mezzo.
“I
suoi
occhi
prima
che
si
chiudessero
per
sempre
mi
hanno
lasciato
in
eredità
la
vendetta.
Era
un
nullatenente
spossessato
dai
Farisei
della
sua
atavica terra a favore dei coloni. Ingordigia senza resto”. Confidò Abed biascicando le parole.
Fece un respiro profondo, si schiarì la gola con un sorso ormai freddo di tè e riprese nel racconto.
“La
guerra
lascia
in
eredità
la
vendetta,
la
legge
del
taglione
e
ineluttabilmente
ci
sarà
qualcuno
che
prenderà-riceverà
il
testimone.
Mia
madre
seduta
su
un
blocco
di
cemento
col
ferro
contorto
piangeva
a
dirotto
come
se
nevicasse;
di
mia
nonna
non
se
ne
sapeva
niente.
Se
ne
stava
con
la
testa
tra
le
mani
e
tirava
in
su
con
il
naso,
fece
un
sorriso
amaro
misto
a
lacrime
di
felicità
allorquando
vide
la
mia
mano
uscire
dall'anfratto
innaturale. E in arabo di gioia gridava, in inglese gridava maledizioni a tutto spiano con incurabili mani al cielo sollevate”.
Cantava
la
zaghroutah
di
vendetta
e
con
tutto
il
cuore
la
invocava.
Il
cuore
divenne
un
coro,
e
tutti
i
presenti
lì
intorno
si
accodarono.
“Che
colpa
ne ho se sono cresciuto nell'odio? Io non voglio odiare mi hanno fatto odiare con l'orrore subito dal mio popolo, dalla mia terra. È colpa mia? No!”.
Chiese
e
rispose
retoricamente
Abed
a
se
stesso
più
che
a
Mauro.
Vivendo
all'inferno
non
si
crea
altro
che
risentimento,
ci
si
impregna
d'odio
come lo iodio, imbevuti gialli di bile verso gli estorsori delle terre altrui.
“Vogliono
estirpare
Hamas
ma
si
fanno
i
conti
senza
l'oste.
Ci
possono
uccidere
tutti,
ma
sono
già
pronti
coloro
che
raccoglieranno
il
testimone.
Tra
dieci
anni
saranno
punto
e
a
capo.
La
Palestina
è
immortale,
anche
se
occuperanno
tutto
il
territorio
vivrà
in
eterno.
Possono
avere
tutte
le
armi
migliori,
ma
non
potranno
mai
sottomettere
un
intero
popolo.
Netanyau
l'ha
presa
come
un
affronto
personale
al
suo
onore,
non
ci
dorme
la
notte
e
ha
sete
di
vendetta.
Deve
lavare
l'onta
sulla
sua
carriera
politica.
Resterà
questo
nei
libri
di
storia.
Giudicato
come
Hitler”.
Abed
si
lasciò
andare
a
sfogare
una
ramanzina
sulla
“Terra
promessa”
declamata
come
l'ombelico
del
mondo
mentre
a
lui
sembrava
ridotta
più
che
altro
il
buco
del
culo
del
mondo.
E
il
condottiero
novello
David
ammorbato,
come
un
tamarro
circondato
da
maranza,
della
sindrome
terapeutica
negativa:
meglio
malato
che
cadere
guarito.
Il
tamarro
non
ha
sensi
di
colpa,
ha
solo
impulsi
coattivi.
È
uno
che
non
riesce
a
verificare
se
si
trova
nel
mondo
comune o d'essere quello dello specchio.
Mauro
aveva
bisogno
di
testimonianze
autentiche,
informazioni
pulite
e
non
le
solite
cose
da
cani
da
guardia.
Tutta
l'informazione
che
usciva
da
Gaza
era
embedded
al
seguito
dell'esercito
di
Tel
Aviv
che
faceva
vedere
quello
che
gli
faceva
comodo
a
discapito
della
verità,
la
quale
risultava
parziale
e
teleguidata.
A
Mauro
ciò
non
lo
soddisfaceva
affatto
essendo
lui
ligio
ai
principi
irreprensibili,
scritti
sulla
pietra,
del
giornalismo
autentico.
Abed
si
muove
tra
le
ombre
silenziose
di
Gaza
city,
i
revenants
rimasti
a
presidiare
e
testimoniare
l'indecenza
israeliana.
Le
scansa
e
si
meraviglia
che
nessuno
l'abbia
contattato
come
testimone
del
paesaggio
mortuario.
Si
meraviglia
che
nessuno
cerca
la
verità
e
tutti
si
accontentano
degli
embedded
disinformati.
Di
quelli
a
cui
fanno
fare
i
tour
turistici
giornalistici.
Eppure
i
contatti
arabi
o
occidentali
che
Abed
ha
lo
sanno
che
lui
è
lì
nel
sottosuolo
sotto
i
raid
pronto
a
vuotare
il
sacco.
Solo
qualche
testata
araba
ha
fatto
alzare
la
sua
voce
dal
sottosuolo
dove
si
protegge
dalle
bombe.
Per
Mauro
ci
voleva
una
seduta
medium
per
contattarlo
e
sentire
la
testimonianza
di
Abed.
Era
difficile
da
raggiungere
in
quelle
catacombe
di
Gaza
city
dove
si
aggirava
con
una
radio
a
bassa
frequenza
per
non
essere
geolocalizzato.
La
notte
usciva
l'antenna
e
si
connetteva
con
un
cellulare tra i profughi scacciati verso Rafah.
Mauro
doveva
verificare
una
fonte
che
gli
era
stata
trapelata
dal
suo
informatore
alla
Casa
Bianca.
Fonte
sicura
ma
ci
voleva
la
conferma
sul
campo. Il file vocale riportava una conversazione tra Netanyau e Biden, o meglio tra il loro sherpa, alter ego, più vicini.
“Non arrischiatevi a far passare la mozione al Consiglio di Sicurezza. Dovete mettere il veto”. Sosteneva l'israeliano.
“Siamo sicuri che poi non attaccate Rafah? Perché nostre fonti dicono che volete arrivare in Egitto”. Bofonchiava l'americano.
“Ti do la parola d'onore di Netanyau che non colpiremo i civili”. Replicò l'israeliano con tono categorico.
L'impero
pensava
di
controllare
la
periferia,
l'avamposto
antimusulmano,
senza
perderci
la
faccia
che
già
tanti
guai
aveva
combinato
adducendo
la
mera
scusa
del
terrorismo.
Contenerlo
per
non
mettersi
contro
l'opinione
mondiale.
Avevano
già
messo
tre
veti
e
il
quarto
era
un'esagerazione.
Poteva sembrare che la lobby interna ebraica condizionasse le decisioni del Presidente, ed in tempo di elezione non era facile barcamenarsi.
“Tranquillo
Sam
tuo
nipote
Ben
non
ti
tradirà
mai”.
Disse
con
tono
convincente
l'israeliano.
“Siamo
il
tuo
avamposto,
non
lo
dimenticare”.
Lo
rassicurò, aggiungendo: “In una regione che fibrilla di arabi con la testa malata”.
“Attenti
che
state
oltrepassando
il
limite.
Se
il
conflitto
s'allarga
non
vi
possiamo
aiutare.
E
con
le
vostre
forze
non
ce
la
potete
fare.
Metteremo
il
veto
ma
datevi
una
calmata.
Rendetevi
conto
che
state
perdendo
consenso
al
livello
mondiale”.
Lo
mise
in
guardia
l'americano
non
tenendo
conto
che di Giuda non ci si può allegramente fidare. La solita solfa, siamo degli asini a cui la storia non insegna niente.
“Se
non
rispettate
gli
impegni
presi
e
ci
prendete
per
i
fondelli
la
nostra
pazienza
ha
un
limite”.
L'assicurazione
dell'amico
alter
ego
di
Netanyau
non
lo
convinceva,
eppure
si
doveva
fidare.
Infatti
il
giorno
dopo
il
veto
all'ONU
gli
israeliani
ripresero
a
marciare
con
raid
su
ospedali
e
moschee
cacciando
via
la
popolazione
verso
il
mare
per
farli
affogare.
Fu
così
che
passò
alla
storia
come
una
remota
provincia
prese
per
il
culo
il
centro
dell'impero. L'eccesso di presunzione è un peccato mortale, l'impero con tutti i pensieri che aveva accusò il colpo e andò in fibrillazione.
Quel
file
vocale
era
una
bomba
perché
sputtanava
l'ignominiosa
condotta
in
questa
guerra
degli
Stati
Uniti.
Eppure
l'opinione
pubblica
in
parte
era pure filoisraeliana ad oltranza giustificando e rendendosi complice del massacro, del genocidio in atto.
Per
motivi
di
sicurezza
Abed
doveva
chiudere
la
conversazione.
“Caro
Mauro
qui
siamo
tutti
terrorizzati,
non
solo
i
bambini
e
le
donne,
ma
anche
i
grandi
e
i
vecchi.
Il
terrore
misto
a
rabbia
si
legge
nei
volti
di
tutti.
È
un
terrore
che
si
esprime
in
rancore
e
odio.
Essi
raccoglieranno
il
testimone,
saranno
la
staffetta
dei
morti
e
in
un
prossimo
futuro
li
vendicheranno.
La
Palestina
immortale.
Non
si
può
cancellare
dalla
faccia
della
terra
un
popolo,
una
nazione,
neanche
Hitler
c'è
riuscito”.
E
mise
giù
il
microfono.
L'immortalità
dell'uomo
consiste
nel
fatto
che
qualcun
altro,
figlia
o
figlio,
nipote
o
cugino
raccoglie
il
testimone
e
continui
l'opera
del
defunto.
Lo
stesso
avviene
per
un
popolo
o
etnia.
La
riproduzione
ha
questo
fine:
impedire l'estinzione. Evitare che i progetti avviati restino a metà: non conclusi, stroncati.
Rosella Rogora
Poesia
Opera in Concorso
Il Nulla
Laggiù dove finisce il mare
l’immenso
si staglia prepotente
in uno sfondo tinto di nero
solo il pensiero
illumina le menti sagge
pronti a comprendere
il nulla.
Dove finisce
l’immenso
vive qualcosa
di impenetrabile e divino
dove l’anima
respira
abbandonata
in un abbraccio sovrumano
cos’è il nulla
un abbraccio
di tutto e di niente
un respiro agognato
su labbra gelide
che sussurrano.
il nulla è niente di niente
è di tutto e di tutti.
Frammenti
Frammenti
di giochi in campi di grano
di grandi risate
di grida spensierate.
Frammenti
di profumi
di sapori
di tavole imbandite.
Frammenti
spezzati
di anni che scorrono via
lasciando
uno strascico
nostalgico.
Frammenti
d’amori
perduti
e ritrovati.
Frammenti
di noi
che viviamo
il giorno e la notte
perché la vita
è un piccolo e fragile
frammento
di stelle cadenti.
Profumo di madre
Il profumo
della tua pelle
mi rincuora.
Come bimba
nel tuo grembo
mi rifugio.
Profumo di madre
mi riveste
come abito d’amore.
Il richiamo è forte
e placa le mie anse
riconducendomi
laddove le tue braccia
mi stringevano al cuore.
Quel profumo è dentro di me
come anima
che si strugge
d’amore.
Rosella Rogora
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Indice degli Autori - In ordine di iscrizione
Gianfranco Tamagnini
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Marco Cesare Mariani
Poesie
Opera in Concorso
Raggio
Un raggio di luce si infila tenue nell’antica oscurità di un pozzo
Sguardi pigri, ignari, si destano da uno sconosciuto sonno
…Si sveglia la notte, stordita da un raggio di luce.
Addio
Addio anni in cui dolce era l’odore dell’inchiostro sparso sui rigoni del foglio
Addio tiglio, odore pungente che abbracciavi la polvere umida orfana di pioggia
Addio strada lunga che misuravo con i miei allegri piccoli passi
Addio volti, odori, che riempivano i miei primi ampi sguardi
Addio volti che siete stati ore delle mie prime giornate
Voci, sguardi, sorrisi sinceri
Addio anni giovanili
Gli unici immortali
Alzhaimer
Ti sento fetore al vento, pezzo di un escremento ormai stanco
Ti sento netto come vedevo il tetto della mia casa un tempo bianco
Ti sento anche da lontano con questa tua scia acquosa ed odorosa
Tuo sollazzo stupito di donna in una giornata afosa
Va dolce letame anticipo del mio giorno fatale
Ormai la tua mente sfatta vive una solitudine carnale
Amo…
Non sono una cima d'altezza o una grande spugnosa testa
Amo la compagnia, i sorrisi, l'allegria dei giovani migranti in festa
Amo la parola, lo sguardo di chi soffre perché sa che poco gli resta
Amo chi aiuta, chi ha avuto poco e di questo poco non protesta
Amo il talento nascosto, diverso che ognuno ha, quando è umile e senza cresta
Amo la gente che ama e si dona senza mai fermarsi o sentirsi mesta
Amo te, figlio mio, mia energia, mia vita, prima della lunga, comune siesta
Maria Grazia Butti
Poesie
Opera in Concorso
L’oggetto
Nel buio del canto
ove un dì ti posero
stai celato e muto
carico di segreti
ad alcuno mai svelati.
Compari improvviso
arretri la mente
fermi l’attimo,
ravvisi immagini
svuotate dal tempo.
Scampato alla vita
arrivi dallo spazio,
precipiti nel presente
incolume,
privo d'ogni ferita.
Tacito,
nella tua immobilità,
vivi l’eternità.
Nasce un’idea
Esile s’infila un bagliore
tra le buie pieghe della mente.
Vaga nei meandri oscuri,
abbatte ostacoli e si frange.
Riprende vigore
avanza prepotente
raccoglie nuova energia
si gonfia come vela al vento
e impetuoso si espande
tra coriandoli di luce.
Parole di ghiaccio
Parole di ghiaccio
tagliano quei silenzi.
Brillano fugaci nel vuoto
per colpire il bersaglio.
Sibila nell’aria muta
un lungo lamento.
Perenni cerchi umidi
compaiono sulla terra
arida.
Quasi un’invenzione
A te che nel cuore mi respiri
e scaldi le mie mani.
A te
che mi attraversi le vene
e mi inondi la mente.
A te
che le tenebre dissolvi
\
e accendi luna al mattino.
A te
che mi tieni al laccio
e mi lasci volteggiare.
A te
che, soffio di brezza,
attenui le cicatrici.
A te mi dedico
nell'infinito di questa stanza.
Lucia Nazzaro
Breve racconto
Opera in Concorso
A proposito di un pasto mai consumato da un agnello
Quel
mattino
le
aveva
tagliato
le
unghie
dei
piedi
e
mentre
rigirava
le
mobili
dita
fra
le
sue
mani,
l’allora
bambina,
si
accorse
di
quanto
era
buffa,
di
quanto
era
grassa,
di
quanto
ridesse
male
e
a
sproposito.
Sua
madre.
Rideva
delle
sue
dita
molli
che
si
adattavano
volentieri
al
suo
ridicolo
gioco.
Che
facesse
in
fretta
a
coprirli
con
i
calzini
(quelli
più
nuovi,
più
bianchi),
con
le
scarpe
che
sicuramente,
avrebbero
avuto
ancora
l’odore
del
bianchetto
con
il
quale
le
ave
dipinte,
perché
lei
fosse
stata
più
credibile
nel
momento
in
cui
avrebbe
sostenuto
la
parte
di
chi
aveva
fatto
la
prima
comunione…
Se
fosse
stata
adulta
l’avrebbe
trovata
solo
patetica
e
magari
avrebbe
riso
con
lei
per
farla
felice
ma,
non
lo
era
e
quel
gioco
metteva
troppo
in
evidenza
quei
grandi
piedi
di
cui
provava
vergogna.
Le
sue
sorelle
(non
certo
mosse
da
spirito
consolatorio),
dicevano
che
sarebbe
diventata
molto
alta.
La
più
alta
di
tutte
(per
via
di
quei
grandi
piedi).
Ma,
a
prescindere
dalle
loro
intenzioni,
quel
motivo
non
la
consolava.
Era
come
se
presagisse
che
quei
piedi,
li
avrebbe
sempre
visti
ingombranti.
Non
adeguati
alla
sua
figura
che,
di
fatto,
smise
di
crescere
prima
dei
piedi.
Non diventò molto alta. Solo un pochino di più delle sue sorelle. Non poteva bastare a colmare differenze…
Quando,
quel
mattino,
si
trovò
sui
banchi
di
scuola,
non
poteva
fare
a
meno
di
guardarli,
anche
perché
l’aspettava
un
recita
che
non
le
avrebbe
fatto
onore.
A
scuola
le
parlavano
di
“fioretti”
di
un
Gesù
bambino
che
avrebbe
voluto
come
amico…Doveva
invece
mentire.
Non
era
il
modo
giusto
di
avvicinarlo.
Come
avrebbe
fatto
a
recitare
la
preghierina,
prima
di
coricarsi?
Era
così
piccola,
povera
cocca!
Non
sapeva
ancora
urlare:
”Ipocrita!”.
A
sua
madre.
Sì,
proprio
a
sua
madre.
Non
riusciva
neanche
a
guardarla
ma,
quel
mattino,
non
desiderava
particolarmente
essere
sui
banchi
di
scuola
e,
quindi
la
scrutò
un
momento,
come
in
attesa.
Forse
voleva
rapire
quel
momento
di
riflessione
che,
lo
sapeva,
non
ci
sarebbe
mai
stato. Era una donna così priva di benevolenza!
Aveva
una
scorza
dura
ma,
come
armatura
priva
di
punte
acuminate,
poteva
ingannare
ed
essere
scambiata
per
dolcezza,
la
sua
pasta
molle.
Rivestiva
le
sue
grosse
ossa,
dure
come
marmo
e
come
ghiaccio
che
ripara
nell’ombra
per
non
spiegare
al
sole
la
sua
reale
consistenza.
Quell’acqua
che
le
inondava
il
volto
quando
piangeva.
Piangeva
sempre
e
rideva,
anche,
di
chi
l’aveva
fatta
piangere.
Puntava
il
dito
contro
di
lui
che
l’amava
tanto.
Si
era
sempre
chiesta
come
potesse
avvicinarla
e
chiudersi
con
lei
poi…in
quella
stanza.
E
il
tempo
sarebbe
diventato
infinito
prima
che
quella
porta
si
aprisse
alle
sue
domande,
alla
sua
paura
e
non
l’avrebbe
percepito
poi
così
lungo
non
appena
avesse
sentito
su
di
sé
quella
nube
calda,
densa
di
lacrime
maleodoranti.
Di
lì
a
poco
l’avrebbe
vista
in
cucina,
preparare
la
merenda
per
lei,
per
le
sue
sorelle
e
tutte,
in
silenzio,
avrebbero consumato il disgusto e il mistero della loro nascita.
Figlia del disgusto
impronta del demonio
Annichilisco
Come fosse vero che Dio ricalca passaggi di stelle, infuocate dallo stesso ceppo.
Del
resto,
di
quel
cibo
strappato
alle
lacrime
non
ne
avevano
proprio
bisogno.
L’altro,
quello
che
nutre
anche
lo
spirito,
l’avrebbero
cercato
tutta
la
vita.
Anche
quando
lei,
abbandonato
ogni
pudore,
lanciava
sfide
alla
lascivia
dopo
aver
comunicato
che
doveva
“evolversi”,
andare
verso
una
vita
libera,
verso
il
primo
amore.
E
non
si
sarebbe
stancata
di
cercarlo.
Il
primo,
l’ultimo,
che
importanza
poteva
avere,
sapeva
di
mentire,
non
ci
sarebbe
mai
stato.
Non
era
di
questa
terra,
la
cosa
che
stava
cercando
con
l’appetito
che
riservava
al
suo
piatto
preferito.
Pasta
e
ricotta,
anzi,
pastina.
Le
veniva
da
vomitare,
mentre
pensava
alle
sue
labbra
sporche
(da
adulta
avrebbe
capito
perché
e
avrebbe
diluito
nell’alcool
il
disgusto
della
stessa
brama),
alla
sua
ingordigia,
pari
solo
a
quella
della
bambina
che,
intanto
cresceva…
all’ombra
della
sua
stessa
specie,
quella
dell’animale
che
aspira
spiritualità
mentre
mastica
sapore
della
stessa
carne.
Ma,
di
questo,
lei,
la
madre,
non
era
consapevole.
Almeno
d
i
questo.
Si
dichiarava
innocente
come
Maria
(la
Vergine)
e
forse
lo
era.
Non
lo
era
quella
parola,
ormai
adulta,
che
scioglieva
nell’acido,
quelle
stille
di
malaugurata
sapienza.
Sì,
l’amore,
soprattutto
non
era
suo.
Di
lei,
la
madre.
Era
di
quella
parola
che
attentava
all’orrore
mentre
cercava
verità,
nascoste
anche
all’Assoluto
e
rischiava
di
perdere,
i
n
quella
sfida
il
molteplice…
avvicendarsi
di
figure,
trasfigurate
proprio
dalle
capziose
torture
della
sua
parola.
Quella,
attentava
l’ordine
naturale
delle
cose
e
le
era
antipatica
non
meno
della
madre
che
in
fondo,
faceva
la
stessa
operazione:
ingoiava
bocconi
di
sana
natura
animale
per
sputarne,
subito
dopo,
la
vera
sostanza.
La
sua
dentatura
corrotta
non
scioglieva
le
fibre
e
rimandava
al
fiele
il
compito
di
distruggerne
la
consistenza.
Perché,
per
lei,
era
soprattutto
importante
il
succo
che
poteva
trarne,
Quel
sapore
dolciastro
che
spingeva
dentro
come
a
rafforzare
la
sua
natura,
già
troppo
compromessa
dal
suo
stesso
sangue.
Edera
dolore,
vederla
così
e
nausea
fino
allo
spasmo.
Ma
lei
non
si
avvedeva
di
nulla,
mentre
imboccava
vie
che
di
assurdo
avevano
solo
la
sua
del
tutto
naturale
propensione
a
iniettare
il
veleno
della
discordia
laddove,
a
sua
insaputa,
cresceva
amore.
Chissà
cosa
la
rendeva
così
riluttante,
così
“schifata”
al
solo
pronunciarsi
della
parola,
cosa
le
si
muoveva
dentro
in
quel
passaggio
fra
parola
e
gesto
che
la
stessa
evoca.
Non
certo
la
bellezza
di
una
natività…
piuttosto,
veniva
da
pensare,
a
quell’attentato
alla
sua
purezza
che
era
parte
costituente
la
sua
sacra
famiglia…
quel
“ti
amo”,
anche,
che
la
incriminò,
pare
a
sua
insaputa, donna e madre, anche… Quale la sua colpa (?), per cotanto scempio…
Incredula
si
aggirava
fra
le
sue
figlie
e,
sempre
più
incredula,
partecipava
ai
funerali
degli
unici
due
maschi.
Nessun
dolore.
Solo
quell’acqua
salata
he
le
irrigava
il
volto,
che
sottolineava
i
lineamenti,
già
consegnati
al
tempo
di
allora.
Sembrava
che
la
morte
non
la
riguardasse
e
anche
oggi
che
si
supponeva,
non
le
fosse
molto
lontana,
nicchiava
oltre
cent’anni…
Infatti,
non
era
possibile
che
morisse.
Era
troppo
scaltra
per
non
ammansire
anche
quella,
per
non
deludere
anche
quelli
che
l’avevano
sognata
per
lei,
per
sfinire
sul
bordo
dell’umanità.
E
anche
lei,
la
figlia,
in
fondo,
osava
pensarla
così,
sempre
viva.
Con
i
panni
stesi
al
vento
e
con
la
sua
voce
che
cantava
motivi
d’altri
tempi
e
osava,
anche,
sfidare,
fino
all’ultima
canzone,
una
possibilità,
qualche
volta
vagheggiata.
Come
quella
volta
che
aveva
interrotto
una
lezione
di
Storia
dell’Arte
perché
fosse
fatta
giustizia,
che
restituissero,
alla
sua
bambina,
il
libro
di
chimica!
E
l’altra,
quella
in
cui
la
vide
andarle
incontro
trafelata,
come
intimidita.
Stava
per
darle
il
libro
di
anatomia
che
lei
non
aveva
potuto
comprarsi,
con
queste
parole:
“Era
questo
che
volevi?...”
E
lei
scoprì
l’altra
faccia
della
vergogna.
In
quel
la
via,
quella
piccola,
goffa
donna,
le
consegnava
qualcosa
di
grande.
Qualcosa
a
cui
non
sapeva
dare
un
nome
ma,
forse
era
amore.
La
stessa
donna
che
qualche
tempo
prima,
l’aveva
messa
in
ridicolo.
Per
lo
stesso
principio,
forse.
Due
“precedenti”
diversi
per
lo
stesso
rimorso.
Quello, indulgeva sulla sua parola, stanca, stancante… Non era chiaro, infatti, cosa la spingesse a scrivere, anche di lei.
Non
aveva
un
buon
odore,
almeno
non
era
quello
del
suo
bucato
steso
al
sole.
Non
ne
era
consapevole
e
strappava
i
suoi
baci,
i
suoi
abbracci.
E
lei
non aveva scappatoie e sfiniva, fra le sue grosse braccia, il desiderio di un disinfettante. Fosse stata meno presente, forse l’avrebbe amata.
Mentre
così
scriveva,
la
pensò
in
quella
sua
ultima
scena.
Quella
Casa
di
riposo
che,
oggi,
raccoglieva
le
sue
braccia
ormai
smunte.
E
stupiva
del
sua
presenza
flaccida
eppure
sempre
più
ingombrante.
Pensava
che
di
questo,
erano
responsabili
le
sue
sorelle
che
l’amavano
tanto.
Che
l’abbracciassero
allora,
che
la
stringessero,
che
non
le
facessero
mancare
l’aria
e
i
piatti
che
amava
tanto…
Perché,
proprio
lei,
era
“del
suo
cuore”?…
…
Mentre
così
scriveva,
lo
sentì
battere
più
forte,
come
un
sussulto.
Poi
uno
strano
silenzio
la
coprì
alle
spalle.
Come
un
paradosso.
Non
mai
troppo lontano dalla verità. Il gelo voleva sciogliersi in lacrime ma, ancora una volta, trionfò qualcos’atro. La scrittura abbandonò la sua arma.
10 Marzo 2021 Lucia Nazzaro
Disarmata.
Sì,
era
proprio
così
che
si
sentiva
mentre
il
cuore
l’avvertiva
di
un
battito,
tutto
nuovo.
Amore,
pietas…
Che
importanza
poteva
avere
ormai.
La
parola
era
stata
scritta.
Vinta
dal
rimorso,
avrebbe
potuto
strapparla,
quella
pagina.
Nessuno
l’avrebbe
reclamata
perché,
lei,
non
era
nessuno.
Almeno,
non
ancora.
Forse,
in
quello
scorcio
di
vita,
poteva
scrivere
ancora
la
parola
giusta.
E
forse,
era
proprio
quella
che
aveva
appena
letto.
Per
questo
motivo
non
poteva
distruggerla.
Forse.
E
perché
poi?
Non
avrebbe
impedito
nulla.
La
morte
era
già
lì,
pronta
all’uso…Un’
occasione
per
esibire
lacrime.
Probabilmente
ne
avrebbe
approfittato
anche
lei.
Le
sentiva
già
prossime
a
versarsi
sul
suo
volto
e
sarebbero
state
proprio
come
quelle
di
sua
madre.
Ne
era
certa.
Una
contrazione
distratta
delle
palpebre.
Quelle
di
sempre
erano
così.
Non
quelle
di
questi
ultimi
suoi
giorni.
Queste,
non
sono
originate
da
nessun
movimento.
Ben
ferme
sullo
sguardo
non
accennano
a
sciogliersi,
a
irrorare
quel
volto,
ché
pure
oggi
ne
avrebbe
veramente
bisogno
Sono
mute,
sono
sorde,
sono
puro
dolore
e
il
suo
spaesamento.
Perché,
il
dolore,
quando
non
è
corrotto
regala solo alla meraviglia la sua verità.
Era
bella.
La
morte
le
si
addiceva.
Era
come
un
gioco
bizzarro
della
vita.
Le
sue
mani
si
muovevano
intorno
alla
sua
figura
come
a
simulare
una
danza,
sembrava
cercassero
il
volto
come
per
sfiorarlo
o
per
assicurarsi
che
c’era
ancora.
Di
fatto
era
rimasto
ben
poco
della
sua
fisicità.
Quella
fisicità
che
aveva
dato
tanto
fastidio,
non
faceva
più
rumore.
Il
silenzio
l’aveva
attraversata,
aveva
tolto
ogni
ingombrante
fardello.
L’aveva
come
svuotata,
lavata.
In
poco
tempo
la
mano
di
un
dio,
scultore
forse,
aveva
con
il
più
piccolo
scalpello
modellato
le
vene
a
tal
punto
da
far
intuire
lo
scorrere
di
quel
sangue
così
impoverito.
Si
aspettava
di
vederle
pulsare,
urlare
ancora
brama
di
vita
ma
tutto,
ormai,
era
fermo
intorno
a
lei
che,
paziente come la morte, non voleva ancora consegnarla al suo principio e chiedeva alla voce di cantare quella vecchia canzone: “Volareeeeee…..
30 Marzo 2022
Ma,
quella
vecchia
vita,
non
voleva
proprio
lasciarla.
Le
si
era
appoggiata
addosso
come
un
abito
ingiallito
dal
disuso
ma,
come
abito
indossato
fino
all’accanimento,
rivelava
della
sua
impronta.
C’era
tutto
della
sua
precedente
forma.
Tutto,
meno
il
colore
che
si
ostinavano
a
metterle
addosso…come forma di risarcimento di quello che le avevano tolto…forse. Forse, come fosse già morta, la vestivano del loro rimorso…
“Io
sono
il
vento…”
Altra
vecchia
canzone
che,
fino
a
qualche
giorno
prima
aveva
cantato.
Datele
l’aria,
per
Dio!
L’acqua
del
mare…che
possa
annegarci
dentro!
Così,
come
desidera.
Forse
non
più.
E’
di
oggi,
l’accettazione
e
una
strana
umiltà.
Come
avesse
già
dialogato
con
la
morte
e
ne
fosse
uscita
con
qualche
garanzia.
Che
importanza
può
avere
la
morte
se
è
già
tutto
finito?
E’
solo
una
formalità
e
per
noi
che
stiamo
a
guardare,
un sollievo. Forse
Eppure
qualcosa
si
muove,
in
quello
sguardo.
Qualcosa
che
ha
a
che
fare
con
l’immortalità
come
fosse,
questa,
un’indolenza
della
vita.
Potessero,
queste pigre parole, portarla all’altare, come sposa della bellezza. Potessi riscattare parole come amore, giustizia, fede…
Taccio, non voglio carpire il suo segreto.
25 giugno 2022 Lucia Nazzaro
Quel
pomeriggio
aveva
pregato
la
morte
di
ricordarsi
di
lei.
Meglio,
di
quel
poco
che
rimaneva
di
quel
paradosso
che
era
stata
la
sua
vita.
Una
scappatoia
per
i
sensi.
Quegli
stessi
che
l’avevano
obbligata
a
procreare,
nonostante
se
stessa
e
la
sua
voglia
di
viverli
senza
che
questi
avessero
a
che
fare
con
la
sua
fertile
natura…e
paradossalmente,
anche
oggi
che
della
vita
aveva
perso
ogni
orientamento,
quella
lista
di
nomi
che
erano
le
sue
figlie
(aveva
avuto
anche
dei
maschi
ma
non
erano
più),
la
ricongiungevano
al
senso
della
vita.
Quale?
Non
è
dato
sapere.
E’
un
fatto
che
quel
senso,
non
le
faceva
prendere
la
direzione
della
morte
o,
semplicemente,
la
morte
l’aveva
dimenticata.
Come
si
dimentica
volentieri
un
fardello
pesante.
A
sua
volta
madre,
aveva
raccolto
questa
intuizione
del
figlio.
L’aveva
trovata
semplicemente
grande.
Spiegava
in
qualche
modo,
seppure
in
chiave
pericolosamente
allegorica,
ciò
che
non
poteva
più
riferire
di
una
forma
di
accanimento
nei
confronti
della
vita.
Suo
figlio
aveva
anche
detto
che
la
morte
è
anche
un
po’
pasticciona…come
dire
che
prende
per
caso
e
che
fa
confusione,
a
volte.
Non
ha,
insomma,
un
suo
registro
preciso.
Perché
dovrebbe averlo, poi? Sarebbe affermare che c’è un disegno…e quant’altro.
Per
chi
batteva
quel
cuore?
Quel
corpo
non
era
più.
Quelle
vene
massacrate,
non
sembravano
raccogliere
nessun
fluire
di
sangue.
Cosa
spingeva,
quella, miccia a non perdere i colpi? La pelle, come stirata sulle ossa, sembrava raccontare di una morte in atto o, peggio ancora, già avvenuta...
E
lei,
godeva
di
quelle
mani
sfilate,
eleganti
come
non
mai.
No,
non
lo
erano
mai
state.
Oggi
poteva,
finalmente
senza
ribrezzo,
accarezzarle,
farle
sue. Forse, il suo sfinire così aveva quindi un senso… Le regalava questi momenti. Quante volte, per quelli, avrebbe scritto la parola rimorso?
Voleva scrivere la parola fine, quella notte e forse, c’era già stata. Era stanca ma non abbastanza. Forse. Come lei.
28 giugno 2022
Madre,
ci
sei
ancora?
Cosa
ho
dimenticato?
Cosa
mi
sfugge?
Cosa
devo
ancora
capire?
Seppure
per
caso,
parole
come
amore,
preghiera…le
ho
usate. Puoi andare…perché la parola perdono non mi chiuderà mai. Nessun uomo, nessun dio, dovrebbe mai usarla. Rimango in attesa
Di quella roccia, sei il vanto
Di quell’animale
che mordeva il tuo frutto
l’assassina
Della mia parola
L’origine indiscussa
La carne
che diventa verbo
Orrore
29 giugno 2022
La
notte
del
5
luglio
2022,
La
Morte
aveva
fatto
il
bucato
e
questa
volta,
si
era
ricordata
di
lei
e
per
sua
stessa
ammissione,
aveva
avuto
difficoltà
sul
programma
di
lavaggio.
Aveva
aspettato
troppo,
quel
povero
corpo.
Quale
potente
additivo
avrebbe
saputo
cancellare
le
tracce
di
cotanto
scempio?
Perché
la
vita
si
era
accanita
con
lei
fino
al
punto
di
togliere
anche
alla
morte
la
sua
prerogativa?
Nulla,
infatti,
proprio
nulla
avrebbe
potuto
restituire
a
quel
tessuto
offeso,
corrotto
fin
nella
sua
più
intima
trama,
macchiato
dell’inverosimile,
ancora
un
benché
minimo
segnale,
anche solo un dettaglio che potesse ricondurre a parole come dignità, esistenza o anche solo…compassione, forse?
Nessun additivo, nessun programma… Solo un’altra morte. Forse.
8 luglio2022
Lei,
la
madre,
era
tutta
lì.
Appoggiata
accanto
alla
sorella,
sul
sedile
di
un’auto
improbabile,
in
quel
sacchetto
blu
che
ricoverava
l’urna
perché
fosse
più pratico il trasporto delle ceneri… Tutto lì
Anna Maddaluno
Breve racconto
Opera in Concorso
"Attimi"
Accade all'improvviso, una mattina che non ti aspetti.
La tua vita è attaccata ad un filo ma tu non puoi muoverti paralizzata dal dolore.
E allora si attiva tutto il mondo per te.
Non c'è un attimo da perdere, potrebbe essere già tardi.
Poi tutto è buio e ti ritrovi sdraiato, ancora impossibilitata a muoverti.
Hai male dappertutto....ma ce l'hai fatta,
Ce l'hanno fatta!
Non ti sembra vero, sei proprio ed ancora tu.
Tutto il mondo che conosci e le persone che ami sono qui con te.
E chi non è con te fisicamente lo è con il cuore e l'anima.
Il cielo porta a te centinaia di braccia che tutte insieme ti sorreggono nel momento in cui sei più debole.
Sperano di essere forti, tifano perché tu resti lì con loro.
E piangi, non di tristezza o rabbia, ma per la gioia di esserci e di poter abbracciare e rivedere tutti.
Forse qualcuno non crede nei miracoli, ma tu si.
È andato tutto bene, e dopo la discesa ricomincia la salita. Ripida, fai tanta fatica ma non importa.
Lentamente, lentissimamente recuperi forza, la forza di ritornare a vivere e salutare quel cielo che ti aveva quasi portato con sé.
Alina Rizzi
Poesia
Opera in Concorso
Fiori rossi
Che l‘età avrebbe dato frutti
non era pensabile
ma che i frutti sarebbero stati
rossi
forse più plausibile –
rischiare avrebbe avuto
conseguenze
non altrettanti dubbi.
Benché scordare le regole
bofonchiate dal Vecchio Bianco
non era stato difficile per Eva
lo fu per me –
seimila anni di tentativi falliti
mi avevano alquanto arrugginita.
Germogli
Nessuno sapeva quanto era buia la terra
in cui annaspavo ogni santa domenica
benedetta e dannata dal tuo sguardo
lontano.
Né della fatica a correre tutt’attorno
perché
il tempo scivolasse nella sera o anche
dell’immobilità in cui giacevo – pietra al
sole
in attesa che mi rifiorissero le braccia
e mi spuntassero germogli dalle unghie
che la mia testa tra le tue mani
percepisse nuovamente fremere il vento
l’aria lacustre dalle finestre aperte
con gli occhi invasi d’azzurro.
Corolle
Quanti momenti può donarci la vita
da ricordare per sempre
senza sbavature né abbellimenti?
Quante opportunità può concederci questo
karma oltraggiato che non accetta preghiere?
Non ci resta che fiorire in stagioni propizie
aprire le corolle affamate di luce
abbeverarci di sole e trepida brezza
prima che di nuovo s’annuvoli l’orizzonte
e torni il freddo a scricchiolare nelle ossa
a ricordarci che l’estate viene sempre
prima dell’inverno e noi siamo nel cielo
niente di più – del tempo che sapremo
accogliere.
Quasi un’invenzione
Il mio tempo non esiste
non c’è un prima e non c’è un dopo
ma una disfunzione dell’anima
dal karma sentenziata.
Sono viva istante per istante
per lo più già morta
con le radici immerse in una terra scura
che non oso contemplare.
Non fosse per quell’unico abbraccio
le mani attorno alla vita
le dita intrecciate negli anni
-più deboli e determinate –
mi stenderei serena
ad accogliere i corvi dal becco giallo
così grati delle briciole di pane
che ogni mattina distribuisco sul prato.
Andrea Diella
Poesia
Opera in Concorso
Murice
Cuori gialli pulsano per le vie,
batte il tempo del silenzio
di giada, gocce d’ assenzio
bruciano il vespro,
tra tetti d’ Ottocento
telamoni sostengono il peso
d’ anime senza un senso,
dall’ atmosfera cobalto
In rilievo lesene,
arnie ondeggiano nel vuoto
prigioniere silenti brillano in catene,
ogni luce diviene selva
all’ angolo d’ ombra,
ogni luce fascina l’oscura matrice,
quando muore il murice
spiriti brindano col calice
attendendo il primo crepuscolo.
Dolce risveglio
Tue le vele sul mare di pelle
issano perle sul mio stomaco
rosei rami abbracciano il mio tronco
fumi densi nella stanza
disegnano fioche caravelle,
polvere di luce, come l’arabo abaco
entrano dalla finestra,
ad uno ad uno conto
come in sogno questa danza
quest’ attimo e
il tuo odore di timo
breccia fra le tue mura
dolce risveglio
la nostra cura.
La Passante
Quell’ iride acerba
coglievo tra mille che
cadevano timide sulla via e
a passi di treno
correva in gola l’amaro
candido d’ attimo
apriva il nocciolo di me.
Un brusio le labbra elettriche
nei cavi dell’anima che
non saprà mai il tuo nome.
Sul Duomo
Sguardi si accarezzano
sotto mani giunte
di marmo
rosa
le labbra
pregano per un altro rintocco
che suona assordante nelle vene.
Un secondo di pietra
tremiladuecento sospiri
e non è più cattedrale.
Eddi Pettenò
Poesia
Opera in Concorso
Ad AMEDEO Modigliani
Posso chiamarti Dedo? Anch’io ti ho dipinto. Eri davvero affascinante,
bellissimo.
I tuoi occhi erano meravigliosi: svelavano la tua dolce anima.
Nelle persone che ritraevi, cercavi il loro mistero, la loro essenza.
Eri capace, sensibilissimo, curioso, affamato di vita.
Vulcanico, geniale, pieno di energia, circondati da moltissimi amici ed
amanti.
Con la voglia di cambiare e di rivoluzionare la pittura e la scultura..
Se da un lato sei stato il Modigliani elegante, amante del lusso,
aristocratico
Dall’altro eri il Modì (“maledetto” in francese) che viveva in miseria,
alcolizzato, fumatore di oppio e malatissimo di tubercolosi.
La tua vita è stata brevissima, “spericolata”.
Avevi avuto tutto e quel tutto lo hai perso.
Il tuo unico scopo forse fu quelli di salvare i tuoi sogni.
A te
Ci sono partenze definitive, magari annunciate, ma non comprese.
Forse per non volerle accettare.
Quanti musi lunghi, quanti silenzi assordanti, quante mancanze ci sono
state tra noi di abbracci, di amore.
Adesso è tutto finito: tornare indietro nel tempo è impossibile.
Non ci sarà un altro giorno domani.
Ora sei nel cardellino del mattino, nella bianca farfalla, nella mutevole
nuvola, nelle stelle della sera.
In tutto ciò e nelle persone che hai amato
E nella mia anima
Per sempre.
Figli
Eravate gia nei miei pensieri di bambina.
Desiderati ed attesi con trepidazione ed
impazienza.
Amati, per sempre, dal primo sguardo.
Coccolati, viziati, assecondati,
resi adulti maturi.
Ed anche ora vi aspetto,
come un tempo e quando,
finalmente, vi vedo
sono colma d’amore
come la prima volta.
Modi e Jeanne
È stata una magia
Incontrarsi, innamorarsi,
convivere.
Le nostre anime si sono
Riconosciute e sono diventate una sola.
Povertà, fame, malattia
Non ci hanno separati.
Neppure la morte ci ha divisi.
Amor omnia vincit.
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Anna Carmelino Saracino
Poesia
Opera in Concorso
Poeti per strada
La vita questa vita,
non ascolta se pur le si parla,
sussurra ancora, non ascolta.
Degenerata vita sei facile nel dar,
i tuoi talenti a chi per caso ti strizza
l'occhiolino,
non vuoi proprio, la longevità.
Se affidassi le tue correnti migratorie alle doti,
faresti,
un salto di qualità,
non meriteresti aspetti scialbi
la crudeltà, ti strappa le sicurezze.
Le battute che deridono i cenci armati si
vendono illusi
e noi liberi per le strade,
componiamo i nostri versi,
perché Poeti.
Rinata
Vedi il tuo umore
lascia che sia lui a tremare per difetto
che importa ha creduto, ed è deluso
Il perfettismo l'ha superato
lasciando dietro di sé
il magone,
una bend stonata che si scorna
tra rumori e disarmonie
ma che fa
è lui ad inciampare,
rotola, quasi,
precipita lungo la sconfinata area.
Sciame di colori,
pennellate verdi, terricci, ormai fiorita.
Cornice appesa ad una parete
è perfetta: sei rinata!
Ti insegna, impara:
Che spessore in questa frase
stracolma di canoni
incombenze
responsabilità: decisionali!
Questo il tuo aspetto
differimento
che c'è di male nella libera beatitudine
se e quando
trovasi qualcuno
è da far vivere e lasciar vivere.
È folle il rumore di chi grida
per piacere
abbracciamoci
per nulla perdere
guarda e non gridare al tuo cuore: "Aiutami,
aiutami non ce la faccio"!
così ti perdi
non ricordi la pura fedeltà
quanto
questa e l'altra eternità.
Il messaggio del poeta:
amarsi un pò!
Taormina 24 luglio
il sole brillava
sui fianchi etnee alture
le brine asciutte
variopinti colori
i fiori maculati (violette)
erbetta filina
corolle di margheritine
nel viottolo noi
due care persone
erbacee gira e volta (girasoli)
contati steli.
Nel basso
i fianchi
canaletti rumorosi
cinguettii
armoniose bolle d'acqua
qual divino il suscitar corre.
Cinzia Galimi
Poesia
Opera in Concorso
Patriarcato
Provo a rispondere al nulla
ma la mia voce è vuota,
un buco nero.
Il vostro è un monologo,
un assolo prepotente
su cui non ho voce:
un rantolo forse
o un vagito senza parola,
miriadi le vostre
così piene di verità
Gaza
Dalla nostra bocca nessun suono
mentre si compie strage di bambini.
Dalla nostra bocca nessuna parola
mentre si sgozza e si stupra
nel campo del vicino.
Dormienti sogniamo un mondo più giusto
di pacifisti e vegani.
Accanto a noi l'umanità si consuma.
Del cuore è nero vuoto il nostro petto.
La mia anima è un tempio
(mottetto)
La mia anima è un tempio,
io stessa vi entro senza
scarpe.
La mia anima è un tempio e
io lo frequento nuda.
Mentre pratico te
come
se andassi al polo nord.
Vecchiaia
Lo senti questo bisogno di vita
come un'urgenza?
Il tempo è poco
limitato a stagioni di nulla.
Un breve volo accarezza foglie tenere di
verde,
come pensieri che si agitano.
Respira ancora
corpo scialbo di tante rughe,
come ferite ti hanno solcato.
Risveglia la tua corteccia dura al sole di
sempre.
Una luna nuova ti accoglierà nella terra
e ti farà vivere ancora.
Ciro Esposito
Poesia
Opera in Concorso
Sotto la cenere
Illuminati occhi
alta la fronte
ne serbavo il ricordo,
come il lapillo che cova
sotto la cenere.
Lustri passati
ne sentivo il calore,
un refolo africo risveglia
l’inaspettata fiamma.
Semplice e trasparente
dal cuore grande,
s’è ripresa la vita guardando
altre il suo pianto.
Tu, che dei miei versi
or sei custode,
lasciati cullare
in questo mar, schiudendoti
a nuovi orizzonti.
Reti vuote
Reti raccolte,
alitato libeccio inebria vele
tra acque increspate.
Mani avvizzite, segnate
da granelli di sabbia,
dirigono la prora
su custodite rotte.
La canizie non sfugge
all’ineluttabile,
con il viso arso come grani
e raggrinziti ricordi
affiorano, della umana
eredità paterna.
Esule tra onde veleggia,
in una culla vuota
e senza governo,
lacerate reti
si trascinano sgonfie.
Veli Caduti
Veli caduti
di anime frante
che s’erano alzate,
schiudendo palpebre
di lacrime incolte.
Svelati son gli occhi
di donne coraggio,
che hanno stretto
in mano
le sorti
di un popolo
già Grande.
Beate immagini
Parole al vento
che non sanno d’aria,
ma di dolore
che ha mangiato sale
e del pianto antico
che non sa tornare.
Di stagioni bianche
si copre il viso
che l’acqua non lava
se non sei qui
a condividerne le crepe.
Desolato riavvolgersi
di mirrate immagini,
il chioccolar dell’acqua
di un ruscello,
il balzellar d’uccelli
a primavera,
tra cui, seperoso,
m’adagio.
Luisa Di Francesco
Poesia
Opera in Concorso
A maggio
Ritorna vuota dalla proda dei tetti
un’orbita devastata e contorta
s’alzano tessiture di polvere
fragili e misteriose
-parola pietosa non prolunga l’infinito-
sopita e sciupata
intride senza posa
s’aggrappa al passato
dispera e muore
cambiando modo di voce.
Caligine di guizzi
in una bracciata di rovi
e il ginepro contro un sasso
risuona più vicino.
Il luccichio di un canto
nel maggio del mattino.
Ad aspettare la luna
Sembra torpore malevolo
è timore di vita.
Il silenzio mette radici
cede frammenti di sogni
sull’orlo della tinozza
che monda i rimpianti:
gli errori tenuti distanti.
Lunghe lingue aguzze
non lambiscono dubbi
nelle ferite aperte
la sofferenza aleggia
e livida la mente.
Sono pensieri i vicoli tortuosi
veleno di passi, senza ritorni.
E mi penso, chiuso tra i muri
a rimestare gli affanni.
E non so più uscire, ad aspettare la luna.
Il porto dell’anima
La notte disfa l’alba
adduglio pensieri in ore.
Svegliami
voglio volare lontano oltre le ombre
di un giorno chiuso in una valigia
sentire gli uccelli parlottare tra i rami
e stare come seduto nelle cose
fra le onde che non approdano
e la gomena filata ad ormeggio.
Voglio essere voce solida dell’anima
perché il sole sorge sempre
e dal suo cielo irraggia
il letto delle mie parole.
Cieco di rimpianti, traccia il suo cerchio
ma non basta a sopravvivere
toccare terra e non solo acqua
in un altro mattino inerte
se la fortuna non arena l’anima al suo porto.
Anime bianche
Tra echi di quiete nel mezzo del fango
tra scarni passaggi coperti di affanno
tra campi di ossa frantumi di lotta
tra giovani arbusti di vita distrutta
tra fiori spuntati su marmi divelti
tra fili di erba di sangue schiarita
ove s’espande la linfa svanita
lacrime di pietra in giovani madri
piegate, su corpi di figli mai nati.
Il silenzio annuncia l’orrore
del suono chiamato dolore.
Grido straziato di vinti innocenti.
Anime bianche, di puro lucenti.
(Striscia di Gaza)
Luisa Di Francesco
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Lucia Spezzano
Poesia
Opera in Concorso
iNNO GREGGIALE DELLE PECORE LIBERE
Uomo che credi di essere il più saggio,
fra gli esseri viventi del creato,
non sai che hai perso tutte le occasioni,
per evitare lo schifo che hai combinato.
Eri nato per fare il grande direttore,
tu che nel mondo eri il più dotato,
ma hai orchestrato tutto con l'odio,
e dell'amore... ti sei dimenticato.
Ed ora sfoghi le tue frustrazioni
suonando il clacson da incazzato.
Uomo che dici di avere un linguaggio,
ma quando parli cerchi d'ingannare,
e con l'ipocrisia che hai nel profondo
vorresti comunicare con il resto del mondo?
Uomo che ti sei venduto per tre note
d'allegria,
non sapevi che la gioia dura poco,
ed il resto è malinconia.
Ed io che sono soltanto un animale,
ma un buon consiglio te lo posso dare:
se non vuoi fare la fine del deficiente,
fatti venire un cervello trasparente.
LA MORALISTA
'Na tartaruga nun se dava pace,
perchè nu je riusciva de grattasse bene
in fonno al carapace.
Già un' artra vorta che c'avea provato,
pe 'na manovra un po' troppo azzardata,
s'era trovata col bel risultato...
de sta' a rovescio pe' n'intera giornata.
Perciò a 'n lifante che s'annava a bere,
je chiede gentilmente: “Per piacere, non é che me potresti da' 'no struscio,
proprio in fonno ar guscio, appena sopra 'l sedere?”
“'Na bella grattata, n'se nega mai, specie a quarcuno
che già sta' nei guai.”
Risponne el lifante ch'era de bone maniere
e je inizia er massaggetto con piacere.
Er tempo de di': “A che sollievo! A che piacere! A che delizia!
'Sta bella grattata soda, quasi me fa veni' un brivido de coda!”
E passa de lì 'na razza moralista de zanzara,
che senza manco abbassa' er tono de fanfara
je grida a tutto fiato: “A sozzi pomicioni, v'ho beccato!…”
E sempre con 'sta stridula voce:
“Stateve accorti immondi peccatori, che... che... mo' ve metto in croce!...”
A senti' 'ste fregnacce tanto azzardate,
er lifante se convince subbito a concederje
un minnimo de du proboscidate.
Una: per poterla stampa' a contrasto duro,
l'altra: per ottene' 'n ingrandimento a fonno scuro.
A parla' male ed a sproposito de 'na tartaruga,
se po' rimedia' magari quarche scusa...
Ma a tira' accuse infondate a 'n ilifante adurto,
é raro che te possa perdona' l'insurto!...
IL REDENTORE
Quello che vedi in terra é già
giusto così com'è,
ma non potrai capirlo mai
se non ti chiedi il perché?
Il mondo è un letamaio, ma
per chi fede non ha
nella gran forza dell'amor
che tutto trasformerà.
Il mondo è un letamaio, ma
solo per chi odierà,
e non potrà conoscere
amore, gioia e pietà.
Mi raccontavan, quando ero bambino
di un Uomo che insegnava a perdonare,
mandato forse in terra da un destino
che gli uomini voleva tutti salvare.
Perciò era nato povero fra i poveri
ed aveva scelto la notte di Natale
ed anche se sapeva fare i miracoli
voleva che il miracolo più grande
lo facessero gli uomini
trasformando in bene tutto il male.
Ma mentre Lui diceva che soffrire
era il modo migliore per capire
gl'han contestato che dovea provarlo
e l'hanno condannato sul Calvario.
E forse solo allora hanno capito,
che un Uomo che riusciva ancora a pregare
per quelli che l'avevan crocifisso
era qualcuno che insegnava ad amare.
Il mondo è un letamaio, ma
un fiore sboccerà
e la gran forza dell'amor
tutto trasformerà.
Il mondo è un letamaio, ma
è una necessità,
per far crescere l'albero
della felicità.
LA CATENA DEGLI SCONTENTI
Chi c'ha er pane nun c'ha i denti!
Chi c'ha i denti nun c'ha er pane!
Chi c'ha pane e denti nun c'ha er salame!
Chi c'ha pane, denti e salame
si strugge, perché je manca la bicicletta!
Chi c'ha i denti, er pane, er salame e pure la bicicletta,
se duole di non averci la barchetta!
E chi già con tutte 'ste cose c'era nato,
ma guarda che disdetta,
c'aveva poco buon senso e, in compenso, troppa fretta!
Mejo.... farse abbasta' quel che già c'hai,
cercando di tenersi er più possibile lontano dai guai!
Lucia Spezzano
Breve racconto
Opera in Concorso
Il Maharaja ed il Saggio
C'era
una
volta
un
Maharaja,
che
malgrado
possedesse
enormi
ricchezze
e
un
piccolo
harem
di
bellissime
fanciulle,
non
riusciva
più
a
sentirsi
felice;
non
provava
interesse
per
alcuna
cosa
ed
il
suo
sogno
maggiore era quello di guadagnarsi il sonno eterno.
Siccome
il
Maharaja
era
un
uomo
giusto,
il
suo
popolo
gli
voleva
bene
e
lo
riteneva
indispensabile
per
la
felice
continuazione
del
regno.
Così
segretari,
ministri
e
persone
a
lui
vicino
avevano
cercato
di
interpellare
medici,
maghi
e
tutti
gli
illuminati,
nella
speranza
di
poter
guarire il loro caro sovrano.
Ma
ogni
tentativo
risultava
vano:
la
salute
del
Maharaja
peggiorava
sempre di più.
Un
giorno,
un
ambasciatore,
che
rientrava
da
terre
lontane,
riferì
di
aver
sentito
parlare
di
un
Saggio,
che
aveva
miracolosi
poteri
per
far
ritornare a chiunque la felicità.
I
ministri
si
diedero
subito
un
gran
da
fare
e
non
ebbero
pace
fin
quando non riuscirono a convocare a corte il Saggio.
Il
Maharaja
era
molto
scettico;
ma
l'uomo
gli
disse:
"Se
in
capo
a
due
mesi
non
sarai
ritornato
felice,
mi
potrai
tagliare
la
testa;
ma
per
guarire
devi
seguirmi
da
solo,
senza
portare
appresso
null'altro
che
un
saio
come
quello
che
io
vesto
e
dovrai
assolutamente
ubbidire
a
tutto ciò che ti dirò di fare."
Il
Maharaja
accettò
la
proposta
e
i
due
se
ne
andarono
come
umili
pellegrini.
Camminarono,
camminarono
per
giorni
e
giorni,
fin
quando
raggiunsero
lo
sperduto
paese
del
saggio.
I
pochi
poveracci,
che
lo
abitavano,
conducevano
una
vita
grama,
dandosi
un
gran
da
fare
a
lavorare
la
terra
pietrosa
per
trarne
quel
minimo
necessario
alla sopravvivenza delle loro famiglie.
Il
Saggio
disse
al
Maharaja:
"Domani
ti
sveglierai
all'alba
e
andrai
a
lavorare
insieme
ai
contadini,
che
ti
insegneranno
a
coltivare
la
terra."
Quando
il
Maharaja
rientrò
alla
sera
dal
lavoro
mangiò
con
grande
appetito
il
pane
inzuppato
nella
minestra
di
ceci,
poi
si
coricò
e
riposò
con piacere, come non faceva da tempo.
Dopo
un
mese
di
questa
vita
il
Maharaja
era
tornato
allegro
e
contento;
disse
al
Saggio:
"Mi
hai
convinto!
Ma
non
posso
ancora
affermare
di
essere
completamente
felice,
perché
penso
sempre
al
mio regno, alle mie mogli, ai miei figli: mi mancano molto."
"Appunto!"
-
ribadì
il
Saggio
-"
Sarai
felice
solo
quando
sarai
ritornato,
perché
ora
hai
potuto
sentire
la
mancanza
di
ciò
che
già
avevi
e
non
ti
dimenticherai più di questa esperienza..."
Un
contadino
che
lavorava
con
il
Maharaja,
udendo
la
strana
storia
disse
al
Saggio:
"
E'
facile
essere
felici
quando
si
ritorna
alle
proprie
ricchezze,
ma
a
me,
che
non
ho
nulla
e
fatico
invano
per
raggiungere
la felicità, non sarà mai concessa una tale fortuna."
"Ciò
che
asserisce
quest'uomo"
-
sottolineò
il
Maharaja
-"
è
pur
vero;
ecco dunque una persona che non potresti guarire..."
Allora
il
saggio
rispose:
"Tagliami
pure
la
testa
se
in
capo
a
due
mesi
non riuscirò a guarire anche costui."
E
preso
il
contadino
lo
racchiuse
in
una
gabbia,
che
fungeva
da
prigione lasciandolo con una ciotola d'acqua e una radice di rapa.
Passato
qualche
tempo,
andarono
a
liberarlo
ed
il
contadino,
che
ora
sognava
solo
la
libertà,
esclamò,
uscendo:
"Questo
è
il
giorno
più
bello della mia vita!"
"Beato
lui!"
-
brontolò
un
condannato
a
vita,
che
stava
nella
prigione
accanto
-
"Ecco
una
felicità
che
io
non
potrò
mai
avere
per
il
resto
dei
miei giorni."
Il
Maharaja,
per
la
seconda
volta,
puntualizzò:
"Ciò
che
dice
quest'uomo è pur vero!"
Il
Saggio
non
si
scompose
minimamente;
rispose:
"Tagliami
pure
la
testa se in capo a due mesi quest'uomo non ritornerà felice."
E
fatta
portare
una
croce
dentro
la
gabbia,
lo
inchiodò
per
benino
trapassandogli
mani
e
piedi.
Non
passò
molto
tempo
che
il
prigioniero
si
convinse
di
essere
molto
fortunato
a
stare
nella
prigione,
purché
gli
levassero
i
chiodi.
Allora
il
Maharaja,
rivolto
al
Saggio
sentenziò:
"Tu
sei
veramente
il
più
saggio
degli
uomini,
che
ho
conosciuto,
puoi
venire
alla
mia
corte
e
prendere
quello
che
più
desideri."
Il
Saggio
rispose:
"Ti
ringrazio
ma
non
me
ne
farei
nulla
delle
tue
ricchezze."
Il
Maharaja
ribadì:
"Ma
ci
sarà
pure
qualche
cosa,
che
ti
potrà
fare
veramente piacere."
Il
Saggio
si
limitò
a
sorridere;
allora
il
Maharaja,
sempre
più
incuriosito,
gli
chiese:
"ma
tu,
che
sei
così
saggio,
sarai
certamente
felice..." e l'altro "né felice, né infelice, semplicemente saggio."
Allora
il
Maharaja
aggiunse:
"Non
potrai
rifiutarti
di
prendere
in
moglie
la
mia
figlia
maggiore,
oltre
che
bella
è
anche
intelligente:
sicuramente
ti
farà
felice."
"Forse!"
rispose
il
Saggio.
"Ma
questo
non
mi darebbe comunque la felicità completa."
Allora
il
Maharaja
terminò:
"Non
ho
detto
che
sarai
felice
quando
la
sposerai,
ma
bensì
quando
riuscirai
a
riprendere
la
tua
libertà,
per
quel tanto che ti sarà concessa.”